APS


Pressato quotidianamente da parenti ed amici (si dice sempre così), dopo ripetute ed ormai intollerabili loro insistenze (e lo si ribadisce pure) per poter stare un po’ tranquillo ho ceduto sbuffando ed ho inviato copia di alcuni miei raccontini ad una casa editrice.
La casa editrice, dopo un paio di giorni, ha cortesemente risposto dicendomi che avrebbe valutato l’”opera” nel tempo di tre mesi, trascorsi i quali, se l’avesse considerata pubblicabile, ne avrei ricevuto comunicazione per lettera.
Passa il tempo, e io mi dimentico un po’ della cosa, ma – sorprendentemente – allo scadere di quel termine ricevo in ufficio un plico nel quale si contengono con difficoltà complimenti, ed un contratto editoriale già siglato su due copie.
La mia collega d’ufficio apre la mia posta. La apre pure se riporta scritto “riservata personale” e, siccome è una donna coraggiosa, la aprirebbe anche nel caso vi fosse stampigliato l’avviso “contiene carbonchio”. E’ lei a relazionarmi sul contenuto e a dirmi che devo pagare una piccola somma che è forse una specie di tassa d’iscrizione.
Io non sono nato ieri, e neppure oggi; leggo il contratto, che magnifica sorti progressive, e trovo la postilla: la casa editrice stamperà cinquemila copie e le spedirà alle fiere del libro di mezzo mondo, alle più principesche biblioteche fiorentine (dove l’italiano non è roba da bischeri) e alle riviste letterarie dei Nobel, dopo che io avrò acquistato o fatto acquistare a qualcuno cento copie del mio riverito libro al prezzo pieno di copertina di 17,90 euri.
So che molti tenutari di blog coltivano ambizioni letterarie, ebbene, colleghi, questa è la lettera che ho inviato all’editore il quale mi avrebbe aperto la strada verso l’immortalità degli APS:
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Spettabile XXX Edizioni, un cordiale saluto a Voi
Ho avuto la sorpresa gradita di ricevere la Vostra risposta al mio invio di una raccolta di racconti, con nientemeno che una proposta di pubblicazione; per un poco, Vi confesso, la mia vanità quasi femminea ha fatto un bagno rinfrescante.
La lettura della Vostra missiva mi ha poi riconfermato le ragioni per le quali chi ha velleità letterarie deve rivolgersi necessariamente ad una casa editrice; quali sono queste ragioni?
E’ molto semplice; l’editoria è una attività imprenditoriale ed essendo anch’io un imprenditore (in altro campo), trattiamo la cosa da un punto di vista comune dicendo che:
L’impresa ha costi e benefici ed i secondi devono superare i primi, così da assicurare la permanenza dell’impresa sul mercato. Per potersi assicurare un guadagno, l’impresa, ai suoi livelli di dirigenza, deve operare le giuste scelte di mercato. Questo significa operare su un mercato che si conosce e si capisce, in modo tale da poter ridurre al minimo il “rischio d’impresa”, ossia il rischio che le proprie scelte non producano guadagno od esitino addirittura in un aumento di costi per l’impresa.
E’ possibile ridurre a zero il rischio d’impresa? Sì, se sei Batman (o Gesù Cristo, per chi ci crede, ma io confido più in Batman), in tutti gli altri casi, no: il rischio, pur riducibile in modo direttamente proporzionale al livello di competenza e capacità intuitiva dell’imprenditore, sarà sempre maggiore di zero; è una cosa da accettare come parte della deontologia professionale, e cioè: “faccio l’imprenditore nel rispetto delle regole del ruolo, sapendo di correre comunque un certo rischio di fallimento delle mie azioni imprenditoriali”. L’imprenditore deve accettare il rischio come parte del suo ruolo e combatterlo con la sua ‘competenza’.
Anche lo scrittore, l’autore che vuol essere pubblicato ha un rischio d’impresa: quello di scoprire di aver perso un mucchio di tempo a scrivere cose brutte che nessuno vuol leggere. Dunque si rivolge alla Casa Editrice, dove trova la competenza (conoscenza del mercato editoriale) necessaria per avere una risposta preventiva sul valore della propria opera; la Casa Editrice “sa” quanto quell’opera può valere, prima di pubblicarla, e dunque sceglie “se” pubblicarla in base al calcolo costi-ricavi; perciò dal momento che la Casa Editrice dice: “buono, si stampi” – questo significa che ha valutato l’opera come conveniente (artisticamente? Ma non scherziamo: “e-co-no-mi-ca-men-te”).Se azzecca, guadagna (i maggiori proventi della vendita di un libro spettano alla Casa Editrice in virtù dei costi di marketing e di stampa che sostiene) e se sbaglia, ci perde. E’ il rischio d’impresa.
E’ possibile delegare il rischio d’impresa? Sarebbe come, per un soldato, delegare il rischio di essere ferito od ucciso sul campo: no, non è possibile, naturalmente. E sensatamente. E pure deontologicamente.
Umberto Eco, in un suo famoso libro, che naturalmente voi conoscete parola per parola, aveva trattato proprio questo argomento costruendo, con una bella miscela di umorismo e realismo, una galleria di personaggi esilaranti come il Signor Manuzio ed il Commendator De Gubernatis; ora, io non mi permetto di dire che Voi siete il Signor Manuzio, ma sicuramente io non sono il Commendator De Gubernatis ed il mio rischio d’impresa me lo sono già accollato.
Per questo motivo, nel caso Voi abbiate valutato il mio piccolo scritto come per Voi conveniente, attendo una proposta editoriale seria, vale a dire una proposta nella quale Voi vi incaricate dei costi di realizzazione e marketing, mi fate una previsione di vendita ed un piano preciso delle iniziative pubblicitarie a cui io debba partecipare, ed io posso avere solo impegni di presenza negli incontri da Voi organizzati allo scopo di aiutare la vendita della raccolta di questi scritti.Se invece Voi non credete che la mia operetta possa, in previsione, avere il riscontro economico da Voi considerato conveniente, sarebbe imprenditorialmente inconcepibile che Vi avventuraste in una operazione di cui è già stato giustificatamente previsto il mancato guadagno, ed io mai mi azzarderei a trattarVi come una qualsiasi stamperia dove la mia presunta vanità (che non esiste) potrebbe avere facilissima soddisfazione, quando io volessi solo regalare a Paola ed a Gino cento copie di un volumetto rilegato, col mio riverito nome su, o sapere che in una remota biblioteca od estera fiera del libro è sepolta una copia dei miei pensierini.
La Vostra proposta, gentile Casa Editrice, è surreale dal punto di vista imprenditoriale e piuttosto auto-offensiva su quello personale, ma non Vi serbo rancore, anzi: perché mi sono divertito a leggerla ed a impersonare, virtualmente, il ruolo di APS in una allegra serata con amici. Dunque Vi debbo ringraziare: l’allegria, di questi tempi, è preziosa come niente altro.
Non so se siete arrivati a leggere questa lettera fino in fondo; nel caso non l’abbiate fatto, questa è la ragione per cui ho messo i saluti all’inizio; se invece siete arrivati qui, magari sorridendo e con un benefico rossore sulle guance, potrebbe essere segno che davvero non siete il Signor Manuzio e la cosa non potrebbe che rallegrarmi.
Dunque cordialmente, Signori; buon lavoro da editori.
 
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Non ho ricevuto risposta.

sciàc!


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E’ un po’ la seconda volta che un fulmine mi casca dappresso; volevo appicciare la sigaretta e l’accendino, dài e dài, funzionava no; rulla, frizza, sfiamma, gratta e sferraglia, ma il fuochino suo non lo manteneva; io paro vento con le mana (plurale, neutro), poi con la giacca, con le fronde, con l’orientamento e la psicocinesi, ma nulla: il fuocogeno non collabora. Così alzo gli occhi al cielo intemperantemente e SCIAC! – la folgore s’accende sul prato con rumore di frusta immane; è un attimo che pare anche meno, quella scintilla d’inferno vive in una contrazione del tempo, ma quando svanisce qualcosa rimane: uno strano odore nell’aria e come un tremolìo che unisce te al resto intorno, ed una storta confusione, una specie di nervosa fatica addosso, perché la coda ovattata della scarica, serpeggiando via, ti ha morso i piedi.

Vien voglia di spostarsi subito, eppure è meglio rimanere lì: è il luogo più sicuro, in un temporale, quello appena sferzato dal lampo, come in guerra lo è il cratere caldo di una bomba. Senza più voglia di fumare, guardo le nuvolone sopra me, che si spingono e fanno buio.

E comunque, m’hai mancato anche stavolta, bìschero.

Clippàrt e sregolatezza (8)


crocefisso

E QUESTO DOVE LO METTIAMO?

Sulla parete, no. Anzi: sì. – E io dico di no. – E io di sì. – E io allora ci voglio anche la faccia di Manitù e di Shiva. – No, perché l’Europa è cattolica. – E io non sono cattolico. – Tu, non lo so, ma l’Europa sì. – Beh, io sono Europeo. – Con quella faccia? – E anche se non lo fossi, se tu metti il tuo dio lì appeso ho il diritto di vedere il mio dio appeso accanto al tuo. – Ma il tuo dio l’hai crocifisso, tu? – Io no. – E allora cosa vuoi: sulla parete ci sta dio solo se è crocifisso. – E allora crocifiggo anche il mio dio e poi lo appendo. – Non si può crocifiggerlo adesso, è tardi. – Ah, perché c’è un orario, per le crocifissioni? – Non fare lo spiritoso. – Ah, io faccio lo spiritoso? Sei tu che bestemmi! – Io bestemmio? – Eh! dici che si può crocifiggere dio solo quando vuoi tu: ma chi ti credi di essere?
– Scusate…
– Chi è?
– No, dicevo… ho ascoltato senza volere… ma dico: voi crocifiggete gli dèi?
– No, non “gli dèi”: dio!
– Ma cosa vi ha fatto, scusate?
– Ma chi?
– Questo dio…
– Io non ho capito. Che domanda è?
– Be’… per inchiodare un dio al muro, bisogna bene che vi abbia fatto qualcosa di male, no? Per esempio, un tempo si lasciavano penzolare i criminali giustiziati per settimane, a mònito delle genti… perciò chiedo: ma che vi ha fatto, questo dio qui?
– Ma scherza? Questo dio qui, che poi è anche l’unico dio… – Figuriamoci. – Ma se ti dico di sì! – Ma non farmi ridere, non farmi: quel dio lì, un dio! Il mio sì che è un dio, altro che il tuo! – Ma se non sai neanche com’è, il tuo dio! – Comunque sia è meglio del tuo che fa pena, fa; e poi mi fa pure ridere, guarda: ah ah ah!
– Scusate…
– Ma che c’è?
– Non mi avete risposto: perché siete così crudeli col vostro dio?
– A parte che questo è il MIO dio perché lui non ci crede (e quindi verrà bruciato all’inferno: tiè) guardi che dio VUOLE essere crocifisso!
– Ma va? È matto?
– Ma no, è per salvarci tutti!
– Per salvarvi tutti si fa crocifiggere? Ma che vuol dire?
– Eeee… è complicato, non s’è mai capito, ma non c’è problema: si chiama “mistero della fede”!
– Ah. E cioè?
– Cioè non si capisce e va bene così.
– Ah. Mah. Sentite: comunque a me quella figura lì fa impressione
– Perché? È così carina!…
– Carina? Un uomo torturato in quel modo, sanguinante, sofferente, appeso davanti a tutti così, mostrato pure a dei bambini… scusate, ma, se non avete rispetto, abbiate almeno un po’ di pietà! Io lo staccherei da quei legni e gli darei una commossa sepoltura, poi magari, se ci tenete a vederlo, metteteci una sua immagine da vivo, per ricordarlo com’era quando stava bene, non so, mentre…
– Ma dài!… è dio, mica zio! C’è mica l’album di famiglia di dio! E poi lui vuole essere ricordato così.
– È un tipo strano, il vostro dio.
– Lei non capisce. Lei è ateo?
– …Non c’ho mai pensato. Sapete, con tutte le cose importanti che ci sono da pensare… a questo, mah…. (guarda l’orologio) oddìo, non ho più tempo di far pausa: scusate, devo andare; buona continuazione, fortunati voi che avete tanto tempo!…

 

Clippàrt e sregolatezza (7)


pereppeppè

Canta che ti passa, si dice; non si dice mai “suona che ti passa” perché suonare è mica facile: bisogna studiare e allora, se uno c’ha dei casini e cerca di farli passare, non è che gli puoi dire “guarda: studia un quattro-cinque anni almeno, e poi suona. Vedrai come ti passa”.
Quindi cantare è considerato più semplice.
Però metti che c’è uno come Pavarotti; vai lì, gli dici:“cantare è semplice”; ti dà un cazzotto in faccia, ti dà, perché lui si fa un mazzo così tutti i giorni per imparare a cantare, studia come un matto, gorgheggia dalla mattina alla sera e poi, la sera, deve pure litigare con l’assemblea condominiale che non lo sopporta più. Una vita d’inferno. A lui, cantare, non gli fa passare niente, anzi.
Perciò vedi che cantare non è proprio una cosa così semplice; allora se te la vuoi far passare davvero, forse è meglio che ti fai una corsettina.