Loghi e leggende


Quand’ero bambino, il logo dell’Agip, o ENI, specificamente della benzina “Supercortemaggiore” mi incuriosiva tanto. Veniva chiamato “il cane a sei zampe”; io avevo il cane, quell’immagine ricordava un cane in qualche modo, eppure non era davvero un cane: come camminava con tutte quelle zampe? E sputava fuoco come un drago.

Cos’era? Cos’era… l’origine di quell’immagine unisce Italia e Francia nella iconografia e perfino nell’onomastica; è poi blasone gentilizio e leggenda antica e misteriosa, parla di grandi laghi leggendari forse esistiti e forse no, di monaci britanni e cavalieri crociati, di mostri antropofagi con fiati di fiamma insieme utile e mortifera e di spietati tiranni che Dante sprofondò nel suo tormentoso Inferno. Facevo bene, da bimbo, a presentire il denso arcano del cane a sei zampe. Si è nel territorio tra il bergamasco ed il cremonese, una sorta di Mesopotamia nostrana racchiusa tra i fiumi Po, Adda, Brembo, Oglio e Serio, fiumi che, come tutti i fiumi, amano esondare. In quell’area oggi compresa fra i comuni di Treviglio, Lodi e Cremona, un tempo esisteva un lago.

Un lago? Pare di sì, perché lì il ghiaiùme del terreno parrebbe derivare dall’accumulo di detriti portati dai fiumi nell’invaso di uno specchio d’acqua, e con tutti quei fiumi lì ci si può credere. Nella zona se ne parla come se il lago fosse appena scomparso, eppure i geologi dicono che il lago, se davvero ci fu, si prosciugò in un tempo non più recente di settemila anni fa, un tempo che dovrebbe risultare fuor di memoria d’ognuno. Ma una qualche memoria è invece talmente viva che il lago che non si vede ha pure un nome: si chiama Gerundo (forse da “gera”, sassi, nel dialetto locale, dal tardolatino “glarea”; è questo un termine riscontrabile in diversi toponimi locali come Fara di Gera d’Adda, laddove “gera” è “ghiaia” e “fara” viene dal termine longobardo per “clan” così che Fara di Gera d’Adda, tradotto, suona “il clan della ghiaia dell’Adda”; un nome suggestivo). Il lago, ci fosse per vero od in sogno, era molto grande, così grande da contenere una lunga isola della quale pure si ricorda il nome: Fulcheria; è un lago familiare, quindi, e che se non c’era era così presente che la disposizione dei paesi della zona sembra distribuirsi attorno ad un perimetro che ricorda proprio la forma del Gerundo, e poi nel suo mezzo, laddove sarebbe sorta l’isola Fulcheria.

Come mai se il lago era scomparso migliaia di anni fa, i paesi son sorti sulle sue coste? Forse perché quelle terre erano più fertili della parte centrale pietrosa? Eh sì, ma così si esce di leggenda e non c’è più gusto. Posto che vi sia stato, questo gran lago fa immaginare un luogo dolce, azzurro, con la sua isola dal nome che ricorda il, e forse deriva dal, latino “pulchra”, ovvero “bella”. Ma se ne parla invece come d’un ambiente infìdo, più figurante atmosfere da febbre gotica che di latino buonsenso. Malsano, paludoso, fomìte di miasmi virulenti, il lago era anche considerato la tana di un essere maligno e terribile, un mostro che sortiva dalle acque aggredendo le barche e che ghermiva i contadini avventuratisi tra le sponde; era come un grande serpente con le zampe e le ali, e spine irte sulla schiena. Era il drago Tarànto.

E qui siamo nel medio evo, nei secoli scorrenti dall’anno mille all’epoca di Dante. Ma dunque c’era, a quel tempo, il lago Gerundo? Non si sa. Il drago Tarànto aveva sei zampe, si muoveva come un ragno, sputava fiamme ed esigeva periodicamente il suo tributo in vite umane dai paesi posti attorno alle acque che eran la sua dimora; come nelle fiabe, specchio delle realtà feudali, il balzello gli era dovuto. Per lungo tempo esso dominò incontrastato quelle terre, perché ben sappiamo che solo un santo o un grande cavaliere possono aver ragione di un drago. E così la leggenda dice che venne San Colombano, dalla lontana Irlanda, a colpirlo col suo santo pastorale, per ucciderlo e liberare il popolo da quella maledizione; il santo che partì dalla sua isola per evangelizzare la Francia, nientemeno, poi venne quindi da noi fondando il monastero di Bobbio e ripulendo dalle maledizioni il lodigiano (Colombano visse e morì almeno cinque secoli prima del periodo considerato, ma è questa la licenza delle leggende). Oppure fu Eriprando, o Uberto, Visconti – il capostipite della famiglia che ci diede poi l’amante di Helmut Berger; eh: sic transit – a sconfiggerlo col suo brando, porlo in imago sull’arme della casata e farlo in seguito divenire il simbolo della città di Milano: un serpente rampante con un bambino in bocca. Sia come sia, col drago Tarànto scomparve di certo anche il fumoso lago, come fosse solo un prodotto delle sue bave miasmatiche, e la terra di quelle zone tornò piatta e priva di sogni come ad un risveglio, e forse è un peccato. Tarànto svanì allora così, come una leggenda? Non proprio, non del tutto: molte delle sue costole adornano le chiese dei comuni di Paladina, Pizzighettone, Lodi ed Almenno San Salvatore, mentre coccodrilli rinsecchiti stanno appesi alle navate delle chiese di Ponte Nossa e Mantova, ad insistita riconferma che il lago ed il drago, nutrimento delle nostre narrazioni, ci furono, davvero.

Come fu che sorse in quelle lande un drago, non è da chiedere perché le leggende non son soggette alla filologia, ma c’è chi pensa che il mostro si formò dalle carni sanguinose e dannate del corpo vinto di Ezzelino da Romano, il tiranno veneto di origine germana, dominus della marca trevigiana e drammaticamente soprannominato “il figlio del diavolo”, che il sangue amava più di quel dilettante d’un Conte rumeno dai denti storti. La bestia gli somigliava: Ezzelino smembrava il prossimo per gusto e sua natura, e dunque, leggenda per leggenda, che abbia figliato un mostro, è plausibile. Ma era un cattivone per davvero, questo Ezzelino da Romano, o è un po’ come per il lago che c’era e non c’era? Beh, cattivo, lo era, ma come tutti; diciamo che la sua maggior colpa era d’esser ghibellino (come lo capisco, ragazzi) e devoto all’imperatore tedesco (già lo capisco un po’ meno, ma piuttosto del Papa…); fece robe da belva, ma a quel tempo nessuno, neppure il Papa, scherzava: quando t’acchiappavano ti si divertivano addosso per un bel po’ a strapparti con le pinze questo e quello e arrostirti qui e là col ferro rovente, prima di finirti; era la moda, allora. Ad ogni modo, Ezzelino stava sulle alabarde a tutti, e tanto che contro di lui si bandì addirittura una “crociata”, una gran coalizione di paolotti dell’epoca che schierati a battaglia nel territorio di Cassano, gli zomparono addosso tutti insieme: “deus lo vult!” e addio a lui, che ora brucia, ad opera dell’Alighieri, nel girone dei violenti; lo ricordo con una residua ammirazione per esser lui morto rifiutando i sacramenti, segno che ci credeva veramente, al non crederci; viva la coerenza. In conclusione, comunque, il nostro fetentone di ghibellino passa per essere una possibile forma originaria del drago Tarànto, ecco, e questo già spiega fin troppo avvicinandoci ai confini della veglia; fermiamoci qui: sogniamo ancora un po’.

E passiamo in Francia, oplà: la mossa del cavallo; sì, perché in Provenza è esistita (diciamo così) la Tarasca. Questo essere aveva una schiena spinosa e sei zampe, viveva nelle zone paludose attorno al fiume Rodano e accoppava le genti sfiammando un po’ qui e là; riconoscete qualche somiglianza? Eh beh: è la draghessa gemella del Nostro. I nostri vicini come la combattono? Oh, per carità: questi francesi melassosi e gnegnè mi fanno ammansire il mostro da una bella fanciulla detta Biancaneve; no, vabe’: Santa Marta, ma è uguale. Eddài, cazzo, dico io, che è: Walt Disney? Comunque, la pulzella francese seduce la belva – carezzina, bacetto – e la porta nel paese che in memoria dell’episodio prende il nome di Tarascona; i tarasconesi appena nominati però riequilibrano la smielata accoppando il mostro lì per lì e cacciandolo sul gonfalone. Chiuso. La nostra leggenda è assai più bella, ragazzi. (Incidentalmente, non è questa l’unica volta che noi e i francesi ci scambiamo i mostri: a metà del ‘700 nelle campagne del Gévaudan, l’attuale regione della Lozère, nella bassa Francia, imperò per anni una bestia misteriosa che fece a pezzi un centinaio di persone; puntuale, apparve quasi contestualmente nel milanese una bestia gemella che ci fece fuori un po’ di cittadini con lo stesso sistema. Sia in Francia che qua, la bestia corrispondente pareva un lupo, ma anche no, e aveva qualcosa dell’orso e del leone, della jena, di questo e di quello ed insomma era un caleidoscopio da farmi piangere Linneo, ma di certo sembrava lo stesso mostro assassino in trasferta pendolare).

Medioevo di santi, cavalieri e buie leggende, tiranni sanguinari ed anche un drago, in quel territorio tra i fiumi. Dunque, quando Enrico Mattei scoprì che nel sotterra lodigiano scorreva oltre ad un po’ di petrolio, anche un gas naturale la cui abbondanza diede forma all’ENI e fece sperare un progresso straordinario dell’Italia grazie ad un giacimento di poderosa energia sorgente dalla terra, è ovvio che il pensiero andasse alla fiamma del dragone leggendario nel luogo, trasformato in soffio benevolo dalla caduta del mito e dall’arrivo della tecnologia. Il simbolo insomma c’era già, bastava raffigurarlo. E con gli occhi della scienza e della tecnologia, col drago Tarànto ormai solo emblema, è facile pensare che il mutevole ed indistinto lago Gerundo ci fosse, ma altro non fosse che l’invaso d’acque costituito dall’esondazione periodica dei numerosi fiumi che passavano in quell’area; ed è facile concludere che ciò che rimaneva di quelle esondazioni fosse una ampia zona acquitrinosa, certo difficilmente praticabile, pericolosa e miasmatica; e si comprende che ogni tanto qualcuno sparisse tra quelle acque di limaccia dal terreno cedevole ed avviluppante, come ne fosse divorato; parimenti si intuisce come il metano sotterraneo che l’ENI di Mattei trovò in così gran volume sotto il suolo potesse talvolta effluire dal terreno mostrando improvvisi lucori di fiamma davanti ai quali i paesani prendevano spavento, subito pensando al soffio di un dèmone nascosto, come la chiesa gl’insegnava. Ed oggi si sa che le numerose costole del mostro conservate in più chiese e perfino in un ospedale della zona son ossa di balena, ed in un caso addirittura di mammuth. Sì: tutto mostra avere una ragionevole spiegazione. Una ragionevole, ma quanto asciutta, quanto bonificata spiegazione, no? Come è più bella, la storia dell’immenso lago, e del suo drago. Che si cela nelle nebbie di queste parti come in un elegante velo nel quale si avvolgono le fantasie che il mondo immagina da quando è vivo; le fantasie che fanno procedere insieme i personaggi che rilucono di realtà verificabile insieme alle streghe, gli stregoni, i mostri ed il mondo parallelo di ciò che appare nell’attimo della veglia, quando non si sa se quel che si vede e sente appartiene ancora al sogno oppure no, e tutto si mescola in un mondo solo dove ogni cosa è ad un tempo possibile, necessaria, vera e falsa.

Così, andate a Soncino, un piccolo borgo al centro dei luoghi di cui abbiamo parlato, dov’è la tomba dell’esecrato Ezzelino: andate a vedere il castello del paese che puntava i suoi cannoni contro il paese e non contro il nemico all’esterno delle mura. Andate a vedere la stamperia ebrea del 1400 dove si stampa ancora oggi, in ebraico, la Bibbia cristiana. Andate a godervi la stranezza delle cose che sembrano essere contrarie alla ragione e, se volete, cercatene la ragione, perché, sì, c’è; ma non esagerate a svegliarvi troppo presto: sognate anche un po’

È domenica.

RES DIVINAE – DE RELIGIONE


Il celeberrimo Stradivari “Lo spezzato”, è ritenuto il più perfetto strumento musicale di tutti i tempi.

Nell’anno del Signore 1805 il prezioso violino costruito dal geniale e sulfureo liutaio cremonese era stato donato dal Principe di Piemonte alla Principessa di Lucca, la quale lo fece consegnare al grande Niccolò Paganini, in quel tempo suo musicista di corte.

Il Paganini era già noto per il carattere luciferino che, accompagnandosi alla sua sovrumana abilità sullo strumento, aveva circondato il violinista di un alone di tetra leggenda; si diceva egli avesse poteri magici donatigli dal Diavolo in persona in cambio della sua anima.

Di certo, il Paganini aveva una personalità irascibile e un temperamento reattivo che lo portava ad improvvisi accessi d’ira; nel provare “Il trillo del Demonio” sul violino della Principessa, il musicista fu talmente deluso dal timbro dello strumento da scaraventarlo a calci attraverso le stanze del palazzo.

Lo Stradivari andò in pezzi, ma per quanto brutale, il magico tocco del geniale musicista corresse la pur straordinaria opera del liutaio donando così al violino il timbro della perfezione.

Lo Stradivari “Lo spezzato” è troppo prezioso per poter essere suonato in concerto, dunque “si sa” che da oltre due secoli esso è dotato di un suono meraviglioso, assoluto ed insuperabile, mai più ascoltato da quel giorno che l’iracondia di Paganini lo frantumò rendendolo eccelso e perciò intoccabile.

Nella leggenda aurea che circonfonde “Lo spezzato” si narra che osservando abbastanza a lungo l’immagine dello strumento se ne possa udire, assieme al canto, il grido del sommo artista evocante la Madre di nostro Signore come madre pure di figli incolpevolmente empi.