Cuore mio – Ciccilluzzo


Papà e mamma lavorando, trascorrevo l’ora di pranzo elementare presso una signora che saltuariamente s’occupava anche delle faccende di casa nostra. Era una pia donna della provincia campana, grande ed analfabeta, che cucinava certe pastasciutte sugose, e speziate tanto da riempir l’ambiente di profumi aspri e, all’ingresso, sconcertanti. Era ella sempre affaccendata ed aveva la radio continuamente accesa ma, poiché a quel tempo c’eran solo due canali, fortunatamente sintonizzata su quello giusto: durante quelle pause imparai così a seguire “Alto Gradimento” e ad apprezzare le possibilità infinite dell’umorismo surreale.
In quella casa modesta ma ordinata e linda, stava Ciccilluzzo.
Nella casa c’era anche un gatto nero che pregava. Questo essere, come tutti i gatti, era ad ogni cosa affatto indifferente; con la perenne espressione stupefatta dei felini, girava lento per la casa e, quando ti guardava, era sempre come ti vedesse per la prima volta; sgranava per un momento gli occhi gialli su di te, poi se ne andava, apparentemente immerso nello stesso continuo pensiero. Ogni tanto, però – e poteva accadere mentre guardava fuori dalla finestra o in fronte alla sua ciotolina, od in qualunque altro luogo – improvvisamente pregava. Si metteva seduto, giungeva le zampe davanti ed iniziava a muoverle lentamente in su ed in giù, senza cambiare la fisionomia attonita che teneva stampata in faccia come una fotografia. Pregava per qualche decina di secondi, e poi riprendeva il suo vagare nebbioso che non gli faceva – o così a me sembrava – mai trovare niente di adatto ad un poco di sosta e di interesse.
Durante queste vicende, Ciccilluzzo restava per conto suo. Sì, poteva accadere che chinasse il capo a guardare le movenze misteriose del gatto o seguisse con l’occhio il ciabattare ben direzionato della padrona di casa, o gettasse, ma appena per un attimo, un fugace sguardo su di me, ma perlopiù egli non concedeva ad alcuno grande attenzione. Talvolta, la pia donna gli s’approssimava e: “billìllo piccirìllo!…” gli strillava con voce gaia; Ciccilluzzo voltava il capo verso di lei, magari s’arruffava un poco, giusto per cortesia, ma poi tornava ai casi suoi, ed era sempre silenzioso.
Ma tutto ciò cambiava quando arrivava Gennaro.
Gennaro era uno dei figli di questa donna ed era l’unico che tornava, per il pranzo, in quella casa. Era un giovane bruno e nerboruto, torvo e scontroso; egli teneva perennemente in bocca uno stuzzicadenti che passava con uno schiocco da un lato all’altro delle labbra ed aveva una particolarità che mi impressionava fino allo spavento: in una mano aveva sei dita. Due pollici sorgevano da un tronco comune sul palmo e da lì si diramavano, divergendo fino a formare due perfette falangi con polpastello indipendente e corredato di unghia regolare. Cioè due, unghie regolari.
Questa cosa mi sembrava una mostruosità incredibile e per giunta si conformava al sembiante oscuro, silenzioso e bruto del personaggio; con tutto ciò, io non volevo mai prendere il pane che Gennaro aveva toccato con quella mano dannata e stavo sempre attento a come la muovesse. Per il tempo che frequentai quella casa Gennaro non mi parlò mai, né io mi rivolsi mai a lui; mai, come si può capire, gli diedi la mano e sempre, con una scusa o con l’altra, lo scansai quanto mi fu possibile. Gennaro infatti mi faceva paura.
Ma per Ciccilluzzo invece, Gennaro era una cosa bella.
Prima che Gennaro entrasse dalla porta, per quella mirabile accentuazione dei sensi che hanno gli animali anche minimi, il verdone Ciccilluzzo cominciava ad agitarsi: nella sua gabbietta, l’uccellino ora saltava qua e là cinguettando in modo sempre più stridulo e, quando Gennaro finalmente entrava, Ciccilluzzo iniziava un canto continuo che aveva realmente una percepibile nota di festa. L’uomo si avvicinava allora alla gabbia e – inconsuetamente – parlava.
“Che vuoi, che vuoi” – diceva l’uomo nero all’uccello, atteggiando il volto ad una specie di sorriso
Ciccilluzzo, più vicino a lui che potesse, gonfiava tutte le penne del collo e gorgheggiava a becco in su, agitando le ali.
“Dàmme ‘nu vàse” – gli diceva a questo punto Gennaro, protendendo le labbra sulle sbarre della gabbia.
L’uccellino allora spiccava un salto e restava a mezz’aria sbattendo velocissimo le ali nell’angusto spazio che c’era tra il suo trespolo e le sbarre, si avvicinava all’uomo e toccava quelle labbra col becco.
Gennaro e Ciccilluzzo parlottavano tra loro un poco ancora, poi l’uomo prendeva un altro stuzzicadenti e lo metteva in bocca, si avvicinava alla gabbia e bofonchiava rude ma dolce qualcosa all’uccellino; questi saltava verso di lui un’altra volta e prendeva dalle labbra dell’uomo lo stecchino, poi tornava sul trespolo e, masticandolo rapidamente, faceva scorrere lo stuzzicadenti, come un rullo di macchina da scrivere, da un lato all’altro del becco. Gennaro sorrideva, Cicciluzzo aveva tutte le piume del collo gonfie e ciangottava in tono basso.
Ma un giorno, qualcosa cambiò in quella casa.
Un parente regalò alla famiglia un canarino. Giallo come un limone e vispo, questo nuovo uccellino fu posto in una gabbietta sua, poco discosta da quella di Ciccilluzzo. Quando Gennaro arrivò, andò a salutare anche questo nuovo venuto, e così ripresero i giorni a passare.
Ma ora Ciccilluzzo non cantava più, non salutava più Gennaro. Io vidi l’uomo avvicinarsi alla gabbia del verdone e chiamarlo: “Ciccillu’!… Ciccillùzz’!…” e l’uccellino restare fisso dando a Gennaro le spalle, e questi non darsi per vinto: “Ciccillu’, viéne accà!…” e porgergli lo stecchino. Ciccilluzzo si girò e andò, prese lo stecchino e lo gettò sul fondo della gabbia. Gennaro restò di sasso, poi disse, e la voce gli tremava dallo stupore: “Ciccillu’, dàmme ‘nu vàse!” – l’uccello si voltò verso di lui e volò fino al suo viso; sentii l’uomo fare “ah!” e lo vidi correr via. Quando tornò, teneva un fazzoletto sulla bocca ed aveva un taglio sanguinoso su un labbro.
Nessuno, per quanto analfabeta, può non capire i sentimenti: il canarino fu posto in un’altra stanza. Ciccilluzzo non lo vedeva più, anche se sapeva che c’era. Col tempo, il piccolo verdone imparò pian piano, come chiunque debba forzatamente, ad accettare la nuova situazione ed uscì per gradi, molto lentamente dal suo rancore, ma il suo cuore geloso ferito non si ricompose mai più del tutto: nel tempo di diverse settimane, Ciccilluzzo riprese a salutare Gennaro e ad accettare da lui lo stecchino, però il suo canto di benvenuto fu solo una pallida ombra degli squilli d’araldo che l’uccellino lanciava un tempo poco addietro alla vista dell’uomo che a me faceva paura e che lui invece amava tanto; lo stecchino non rappresentò più per Ciccilluzzo quel gioco di unione ed il verdone lo masticava svogliato, poi se ne liberava presto. Io mangiavo la pastasciutta della mia ospite e guardavo Ciccilluzzo, ed i suoi colori mi parevano sempre gli stessi, il suo sguardo laterale manteneva la medesima espressione fissa, nessuna lacrima io vidi mai in quegli occhietti, né il becco si piegò davanti a me in una smorfia di tristezza; ma Ciccilluzzo era cambiato, era cambiato per sempre.
Così Ciccilluzzo fece capire al bambino che ero che la vita è la vita per tutti e che perfino in quei pochi grammi di essere così diverso, i sentimenti, le aspettative, il senso del’intimità che non si può tradire, sono i medesimi. Proprio gli stessi.

Caffè e giornale, e poi via


You can’t more
Se n’è gliuto You Can Leave. Metamorfico personaggio: a Woodstock sembrava l’uomo lupo, poi, con l’età, gli è venuta una parvenza di professore di lettere antiche, che solo ad immaginarlo con in bocca uno spinello pareva di bestemmiare. Dimostra forse che non tutti i professori severi non gradirebbero una vita dissoluta.

Apologia di reato
Il rènzi: “l’evasione fiscale è una rapina!…”

Sì, ma ce ne fosse uno che sa disegnare la svastica
C’è di nuovo che riappare Ordine Nuovo con un’intervista all’ “ideologo” (sic!), il quasi centenario Rutilio Sermonti, che ha fatto in tempo a militare nella buassa fascista d’antan. Si dice che i vecchi siano emotivi e biliosi: il Nostro è un’epitome del caso. Vuole uccidere e massacrare, fare stragi. Perché? Boh. Ma fosse solo lui: alcuni epigoni dell’epitome, però in età di lavoro, ripetono: vogliamo uccidere e massacrare, fare stragi; e anche: “ci vuole un altro Italicum”. Si dice così anche oggi al governo, ma non pensando al treno, perché pensare è difficile, non per altro. Chissà cos’è peggio, comunque.
Quiz: ovvio che c’è differenza tra Italicum ed Italicus: uno finisce per esse e l’altro per emme. Quale dei due con che?

Il Capo quasi stato
“colpisce il dilagare della corruzione, ma no al protagonismo dei magistrati” – l’importante è l’avversativa.

Ordine Stato Nuovo

Ci si càndida alla carica (nel senso: di corsa). Pare che tutti quelli che vengono nominati, perciostesso siano da considerare “bruciati”, dunque sconfitti a prescindere. Non ho mai capito perché; un po’ come ti chiedessero: “ti faccio due uova o preferisci un po’ di pasta?” – “due uova, grazie” – “benissimo: quindi tu le uova non le mangi più”.
A ogni modo ci sono dei bei nomi: Riccardo Muti, il direttore d’orchestra, che così non potrebbe dirigere più una fava e gli rovinano la carriera; Gino Strada, che essendo una persona seria ed impegnata veramente, non ha nemmeno il tempo di mettersi a ridere; Laura Boldrini, che a parer mio somiglia a Napolitano pure di faccia e certamente non ce lo farebbe rimpiangere neanche un po’. Emma Bonino.
– Chi?
– Emma Bonino, partito radicale
– Ma scherzi?
– E no, che non scherzo. Neanche prima, scherzavo.
– Ah, neanche prima?!
– No.
– Allora hai uno strano modo di essere pazzo, son sicuro che non è vero.
– Non è vero che son pazzo?
– Già, purtroppo.

Habeas Pongo
La Corte di Cassazione Argentina ha deciso: Sandra, dopo 29 anni di detenzione può essere liberata; questa sentenza è ispirata nientemeno che all’ “Habeas Corpus”, la norma anglosassone che impone “vi sia sostanza” all’accusa. E l’accusa, all’esame dei fatti, è risultata non avere dunque sostanza.
Perciò, l’orang-utan Sandra sarà fatta uscire dallo zoo di Buenos Ayres che l’aveva ospitata tutto questo tempo. Intervistata, Sandra ha detto tra le lacrime: “sì, ma io che faccio adesso? Non ho un lavoro, non ho casa, non so nemmeno dove trovare un cazzo di banana”. Il leone Reginald, vicino di gabbia, a testa china ha mormorato: “l’ho scampata bella: sai che ridere se mi riportavano in Africa; chi le becca più le gazzelle, adesso. E poi coi casini che scoppiano, là… speriamo mi lascino in pace in galera”. La disperazione del guardiano: “Sandra era tutta la mia vita, ed ora me la portano via. Che farò qui io? Le giraffe, ti guardano dall’alto, gli ippopotami stan continuamente a mollo e il lama mi sputa sempre in faccia. Lei era la mia unica consolazione (piange)”.

Rarissimi panda
No, questa è bellissima: la Guardia Forestale piomba al Circo Orfei, ed uno subito pensa: povere tigri, poveri leoni, chissà; e invece no: i tigroni stanno bene (forse); il motivo del severo controllo è l’aspetto di due panda ben strani, che scodinzolano e fan pipì a gamba alzata. E allora si scopre che due cani Chow (dei bestiotti ursini con la lingua blu) sono stati truccati da panda, con tanto di occhio nero, per far foto coi turisti.
Patapùm: multone boia per il raggiro e pure per il maltrattamento ai Chow, cui evidentemente non era gradito esser presi per quei pirloni dei panda, eccheccacchio.

Padre perdona noi a pagamento
Il nostro Santo Padre che fa concorrenza tremenda al “Papa Buono” dei nonni, se l’è pigliata ancora con la Chiesa: e qui e là la Chiesa, brutti cattivi, non fate il bene, ma non si può così, e insomma e perbacco. Ora, io mi dico:
il Papa è l’ultimo sovrano assoluto del Mondo; un relitto di epoche dispotiche ormai presenti solo negli staterelli militari o nelle repubblichette finte, come la nostra. E allora, che gli ci vuole, dico io, che gli ci vuole a dire “la parola”, come Guzzanti? Egli s’alza bello una mattina e chiama i Cardinali: “Cardinali, venire qua, scattare! Da oggi si cambia: sàndali e saio per tutti, oro ai poveri e – udite udite – si paga la tassa sugli immobili! E adesso retro front e avanti marsch, fuori dalle caligae, unò-dué, hop, hop!”
Che gli ci vuole, il mio consiglio?

Ecco perché


Un articolo riporta la notizia sconvolgente (vorrebbe esserlo): “siamo più simili agli uccelli che alle scimmie”. Ma perché? Perché ciabbiamo gli stessi geni per il canto, cioè il cinguettìo, cioè il linguaggio, cioè diciamone pure quante vogliamo, che tanto nessuno ci ascolta davvero.

E’ una bellissima idea, quella di pensarci quasi uguali agli uccelli, a parte il becco, le piume, le ossa cave, l’encefalo liscio e qualche centinaio di milioni di anni di evoluzione separata, direi; ma perché no; e poiché si è recentemente scoperto che pure il tirannosauro era più simile ad un uccello che a un coccodrillo, vuoi scommettere che anche noi siamo in fondo un po’ tirannosauri? Certo, adesso il solito scienziato rigoroso sentenzierà che una discrepanza di meno dell’un per cento del genoma basta e avanza per creare una specie del tutto diversa, come càpita all’uomo ed allo scimpanzé bonobo, ma l’idea di fregarsene, appollaiarsi sulla ringhiera e – se non proprio riuscire a volarsene via – almeno canterellare un po’ da uccello, dovete ammettere che ha un suo fascino.

Queste notizie sono un po’ come quelle che dicono, ad esempio, che le stelle contenendo fosforo come noi pure, porca vacca, mostra in tutta evidenza che siamo figli delle stelle, il che dimostra come minimo che Alan Sorrenti era più scienziato che cantante (io l’ho sempre pensato, che fosse qualsiasi cosa più che cantante).

D’altra parte, la biologia ha mica mille facce, ma, come tutti noi, ne ha una e basta. Da che se ne può agevolmente dedurre quanto vi sia di noi nello scarrafone e viceversa (e qui, ovviamente, casca Kafka a fagiolone: scriveva, è vero, per il gusto di vedere il lettore suicidarsi, ma come scienziato era alla pari di Alan Sorrenti, perdìo).

Io non so perché, lo dico anche se non c’entra niente, questo cazzo di wordpress mi mette una interlinea larga subito dopo il punto; ma chi glielo dice? Cosa fa? Come si permette? Chi si crede di essere per decidere lui? E non si riesce ad impedirglielo; che gli venga un colpo, sacramento.

Comunque, ecco perché parliamo: perché gli uccelli cantano; è questa, la conclusione (se non è questa, chi se ne frega: basta anche meno per farsi dare ragione da qualcuno). Resterebbe ora da capire perché, ad esempio, camminiamo e poi improvvisamente ci mettiamo a correre: non forse perché abbiamo dietro quel grosso cane sbucato fuori da un cancello aperto, ma deve entrarci qualche altra specie animale. Speriamo non sia il bradipo, santa madonna.

Cappuccetto a Rischio e la nonna


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…E alzando un indice ammonitore, la nonna disse:
“poi ricordati, Cappuccetto a Rischio: non andare mai nel bosco…”
“…di sera, lo so, nonna” – la interruppe Cappuccetto
“no, di mattina” – riprese la nonna – “e soprattutto nei fine settimana”.
“Ma nonna” – piagnucolò la bimba – “a me piace andare col lupo nel bosco, la mattina presto che il sole è appena spuntato, a odorare gli afrori delle piante e degli esserini che colà – anzi, costì, perché siamo nel bosco – vivono! E’ vero: io non odoro proprio un cazzo, perché l’uomo ha un odorato che distingue a malapena la cacca dal cioccolato, ma vedo il lupo invece bearsi del rinvenimento suo di tutte quelle tracce e godo, diciamo così, per procura”.
La nonna prese un’aria accorata, rialzò l’indice ammonitore e disse a Cappuccetto a Rischio:
“piccina mia, quel che tu fai è assai pericoloso, per te e per il lupo; non sai tu che questo è il periodo nel quale Il Cacciatore si risveglia dal suo letargo ed esce dalla tana famelico e feroce? Egli batte le colline, accompagnato da mute di cani urlanti ed uccide tutto quello che trova, né è certo che poi almeno lo divori, perché il suo gusto è appunto l’uccidere, finalmente, dopo tanta astensione dall’atto, che ha patito.”
Nel bosco fuori dalla casetta risuonavano lontane eco di grida rauche e schiocchi secchi come di alberi spezzati; Cappuccetto a Rischio guardò la nonna con stupore:
“Ma nonna” – le disse – “a me Il Cacciatore ha spiegato che egli ama la natura quant’altri nessuno; e che se adopera il fucile e caccia, è perché così fanno tutti gli animali, perciò questo non è un male; e finalmente Il Cacciatore pensa al ripopolamento delle specie che abbatte e con ciò ricrea nel bosco quella vita che gli sottrae, mantenendone l’equilibrio, talché assume un merito che alcun altro possiede; perché dunque tu me ne parli come di un cieco assassino seriale, di un bruto diabolico e senz’anima?”
La nonna sorrise mestamente, si fece più vicina a Cappuccetto a Rischio, abbassò il tono di voce e così le parlò:
“Nipote mia, dài retta alla nonna che ha tanta esperienza; questi argomenti paiono avere una logica a causa di un incantesimo cretino. Rispondi, da brava, alle mie domande: è pratica comune tra chi non è cacciatore, quella di ripopolare la selvaggina del bosco?”
“direi di no, nonna”
“Dunque lo fa solo Il Cacciatore. Ed è vero che il Cacciatore è detto tale perché gira nel bosco uccidendone gli abitanti?”
“stavolta direi di sì, o nonna: se non cacciasse non sarebbe cacciatore, no?”
“proprio così. Perché dunque solo Il Cacciatore ripopola di animali il bosco?”
“mmm… be’, perché chi non è cacciatore non utilizza il bosco per predare e così non ci pensa, mentre Il Cacciatore sì, altrimenti non avrebbe nulla da cacciare?…” – rispose Cappuccetto
“ecco. E dunque, se ci pensa solo Il Cacciatore, egli lo fa…”
“…solo per cacciare!”
“brava, bambina mia. Da che ne deriva che, essendo l’unica ragione sua quella di poter cacciare, dell’amore per la natura ed i suoi equilibri egli…?”
“…se ne sbatte i coglioni, nonna!”
la nonna sorrise contenta e si alzò andando verso la madia – “brava Cappuccetto a Rischio; meriti una fetta di torta della nonna”.
Abboffandosi di torta della nonna, Cappuccetto disse ancora:
“sì nonna, però a me Il Cacciatore ha detto pure che tutti mangiamo la selvaggina, solo che ci rifiutiamo di ucciderla, così ha concluso che questo è un atteggiamento ipocrita perché in tal modo facendo mostriamo di non volerci assumere la responsabilità delle nostre azioni, accettandone però i frutti graditi!…”
la nonna annuì socchiudendo gli occhi con un sorriso – “lo so, lo so nipote mia, e questa è l’ultima carta che egli si gioca; uno scartino, in realtà. Rispondimi: ti piace lo stufato?”
“oh sì, nonna!”
“molto bene. Allora, fammi una cortesia: dove l’ho messo…” – mormorò la nonna frugando nei cassetti della madia – “ah, eccolo qua” – disse poi estraendo dal mobile un grosso coltellaccio che porse a Cappuccetto a rischio – “rècati con questo al macello cittadino e scannami un bel vitello grasso, poi lèvagli le interiora, fallo in quarti ed estrai dalle sue carni solo la parte per lo stufato. Direi che un chilo basterà. Io intanto preparo l’intingolo; su, vai, a più tardi” – concluse la nonna raccogliendo sulla tavola delle verdure ed iniziando ad ungere di grasso la padella.
“…ma… nonna…” – disse con flebilissima voce Cappuccetto, guardando ad occhi sgranati il coltellaccio che la nonna le aveva messo in mano.
“cosa c’è, nipote mia: preferisci forse lo spezzatino?” – le domandò la nonna
“non è questo nonna, io…” – rispose Cappuccetto con voce tremula – “…come faccio a…”
“glielo pianti bene nella gola” – disse la nonna – “e fai uscire tutto il sangue; a un certo punto il vitello crollerà a terra ed i suoi occhi si veleranno; forse farà ancora qualche sussulto, ma è tutta natura, questa, perciò non bisogna impressionarsi; alla fine il vitello morrà e tu potrai squartarlo comodamente. Però ora vai, piccina mia, perché altrimenti lo stufato che ti piace tanto non sarà mai pronto, orsù, vìa”
Cappuccetto a rischio gettò a terra il coltellaccio e scoppiò a piangere: – “ma nonna, è orribile! Nessuno fa così! E’ una pazzia! Non posso invece andare al supermercato e prendere un chilo di carne confezionata? Forse che ogni volta che si mangia un po’ di carne bisogna uccidere personalmente un animale? Mio dio, è un’idea malata, mi fai paura, nonna!”
“certo che è un’idea malata” – le disse la nonna riprendendo il coltellaccio ed asciugandole le lacrime – “perché, come hai detto tu, esistono altri sistemi. E se malgrado esistano altri sistemi, si vuole proprio utilizzare il più orribile è perché…”
“perché evidentemente piace fare così!…” – rispose Cappuccetto, singultando.
“perché evidentemente piace fare così” – confermò la nonna – “dunque, in questo caso, Il Cacciatore vuole cacciare…”
“…solo perché ama uccidere!” – disse Cappuccetto.
“come vedi” – disse la nonna.
Cappuccetto a Rischio stette un momento a capo chino, poi guardò la nonna negli occhi“…ma è una cosa bruttissima, nonna…!”
“Capisci perché in questo periodo è meglio non andare nel bosco la mattina dei week end? Roba da matti, no? In questo mondo dove esistono le querele anche per una parolaccia, ci sono momenti in cui un cittadino manco può passeggiare un poco su suolo pubblico senza rischiare una fucilata, e tutto perché pochi qualcuno possano godere nell’uccidere qualcosa, così, senza scopo altro. Vedi quanto siamo minchioni, Cappuccetto a Rischio? Tutti amano la logica, a parole, ma poi spesso non la usano nei fatti. Sconfortante, vero?” – le sorrise la nonna, carezzandole il cappuccio.