Miao, cioè: bau


I cani fanno le fusa?

Sembra una domanda oziosa, o ingenua, o polemica; ma solo perché siamo abituati agli schemi: il cane abbaia, il gatto fa le fusa. Se ci dicessero che la tigre le fa, diremmo: “urca. Però, vabbè, è un felino e quindi è possibile, ci sta. Farà tremare il pavimento, ma ci sta”. E il cane?

Ma che cacchio dici, il cane; s’è mai sentito un cane che faccia le fusa, che c’entra il cane, non diciamo sciocchezze.

Ed invece, i cani fanno le fusa quando sono coccolati e se la godono assai. Avendo sempre avuto il cane, so da un pezzo che nei momenti di rilassamento sotto carezze i cani variano la respirazione producendo suoni ritmici.
Al contrario di quanto accade nei gatti, questo suono non è uguale in tutti i cani (è però sempre lo stesso nello stesso cane): in alcuni individui è un sibilo sottile sincrono all’espirazione, in altri è un mormorìo ripetuto che somiglia molto al “mmmm…” umano, in altri ancora (come nel cane del filmato) è più simile al suono emesso da un gatto.

Alzate bene il volume ed ascoltate: il cane ha appena mangiato e sta per fare una pènnica postprandiale, già gli è venuto l’abbiocco, però vuole conciliarsi il riposo con una pastrugnatina affettuosa sul collo, e fissa il padrone con insistente occhio languido per invitarlo all’opera. Una volta che il padrone accetta, il caldo piacere dell’animale si esprime con grande gorgoglìo respiratorio; in questo cane, come nel gatto, è udibile sia in inspirazione che durante l’espirazione, sebbene nella seconda fase appaia più sonoro. La variazione dall’insensibile respiro prima delle carezze e durante l’atto è netta. In qualche caso, l’animale, prevedendo quello che sta per succedere, inizia appena prima che le carezze gli siano date.

Bene; abbiamo terminato l’esperimento ed ora invio tutto a Questoccolma (come diceva Totò: “cosa sono questi modi dialettali: io parlo italiano correttamente e non dico ‘Stoccarda e ‘Stoccolma, ma Questoccarda, Questoccolma!”) allo scopo di concorrere al Nobel per le Osservazioni Individuali Le Più Varie, od almeno l’IgNobel, dove si magna, si beve e ci si diverte. Spero nella seconda.

Occhio ai vostri cani, però, ragazzi: se fanno solo le fusa, è facile che siano proprio cani, ma se gridano anche “miao”, mi sa che vi hanno fregato, e se fanno la tela e ci avvolgono le mosche, riportate la tarantola peruviana nel negozio e andate prudentemente in un canile, dove è più facile trovare cani D.O.G., volevo dire: D.O.C. –

Buona etologia casalinga.

Sympathy for the casino


(Questa dev’essere la più brutta versione del pezzo stonesiano; Jagger è stonato e svogliato come un ubriaco, Richards ha la chitarra scordata e fa dei riffs imbarazzanti per l’inamovibilità della sequenza di note e per il tono nasale dello strumento che pare avere corde di nastro da pacchi, il tappeto ritmico è monotono fino alla fastidiosità di un disco rotto e poi la canzone dura ben oltre il limite dell’inizio di un attacco isterico. Ma è una versione, perciò, diabolica. Comunque è bello vedere come erano quelli che saremmo voluti essere anche noi, almeno finché non li vediamo).

Campioni del mondo


Mi arrivano ogni tanto lettere-fregatura che sono più comiche della mia satira, ma io ci provo lo stesso (a farne la satira).

“Egregio Imprenditore: la Sua azienda è stata selezionata tra le dieci migliori della Regione Lombardia, per questa ragione La invitiamo alla trasmissione ‘Il Grullo Importante’ ove, alla presenza delle autorità mondiali, saranno consegnati i prestigiosi premi, tra cui un importante asino in maiolica opera dello scultore celebre Pippariello che potrà ben figurare (l’asino, no lo scultore) nella hall del suo edifich ad onza della concorrenza. Nell’ancora nuovamente rinnovarLe la ripresentazione delle nostre ulteriori congratulazioni, Le diamo dunque appuntamento il giorno…”

Questa lettera (uguale almeno nel senso) mi giugne con scadenza tri o tetraennale, di mese quando in mese quando, e non ho capito se gli estensori di essa mi pensino proprio un cretino senza pari o semplicemente uno dei più grandi cretini che ci siano in giro. Nellùn caso e nellàltro mi trovo in qualche modo lusingato.
La prima volta che la ricevetti fu molti anni fa; lavoravamo da pochi mesi, manco c’era il primo tabulato, ancora non si sapeva quanto avremmo guadagnato, forse entro poco saremmo falliti, forse avremmo costruito il ponte sul più largo tra gli stretti, forse saremmo rimasti lì, coi tabulati, per sempre come è poi avvenuto; noi non lo sapevamo ancora.
Ma Qualcuno sì: ecco che arriva la lettera; la mia impiegata d’ailleur legge e trasecola: madonna di Cocorito: in tre mesi che esistiamo, già siamo l’impresa migliore della Lombardia! Delle due l’una: o le migliaia di imprese lombarde fanno cagare quasi tutte, oppure il mio datore di lavoro è un genio come Leoniere lì, Leopardo, quello con la barba che ha fatto Il cielo in una stanza e Pota Lisa cinquemila anni fa.
Purtroppo c’era un’altra ipotatèsi: ci pigliavano per il culo; sì, lo so, è una locuzione poco adatta ad una convention di badgeurs, dove si parla sì di trombate epiche, ma con toni molto mètropol; però, sia come sia, essi in tal guisa ci pigliavano.
Lei arriva sventagliandosi con quella busta e mi porge la lettera, ha gli occhi sgranati che già sognano il nostro ufficetto trasferito ad un cinquecentesimo piano di vetrate da cui dominare il mondo tra musiche soffuse, petrolieri, miliardari e presidenti d’ogni cosa. Io leggo.
E, dominando il desiderio di usarla impropriamente, appallottolo la lettera e la sfrango nel cestino; poi mi accorgo dello sguardo della fanciulla e spiego:
“Mia cara, ci hanno ritenuto per il deretano”
“What?” – dice lei, con accento un poco svizzero
“Catched by the ass” – traduco approssimativamente in lingua internéscional
“Ma va?”
“Essì”
“E io che mi figuravo…”
“Figuriamoci”
“E se fusse vero?”
“La verità è una” – dico, facendomi forza della recente lettura di Vangeli apocrifi
“E qual è?”
“Non cominciamo a fare gli scettici”
“Non abbiamo vinto?” – si lamenta lei facendo boccuccia; e allora io mi commuovo e mento:
“…Ma sì, ma sì”
“Abbiamo vinto?!” – saltella
“Ma sì, ma sì”
“Che bello, siamo una delle imprese migliori della Lombardia! Lo dirò subito alle mie amiche!” – fa lei, ed esce
“Rosamunda!…” – la chiamo
“Sì?” – dice lei affacciandosi
“…Del mondo!…” – le sorrido. E lei va via davvero davvero contenta.

Il messaggio sapienziale


Tempo fa pubblicai su fèisbuc questa fantasiella ispirata da un fatto curioso: un giornalista s’era messo lì a rendere perspicui i testi del cantautore Battiato, evidentemente convinto che sotto l’astrusità avessero un senso. Per me, non ce l’hanno, così avevo bonariamente irriso il tentativo. Nell’irridere, però, mi sono accorto di seguire un procedimento religioso (ma è ovvio: chiosando il profeta, si fa religione) ed allora ripropongo sul blògghe il testo, ritenendolo buon esempio di parlaggio mistico, ovvero modo mentulae canis.

Sul sito del Fatto Quotidiano, l’ottimo (se scrive su Il Fatto, è ottimo) Fabrizio Basciano presenta l’esegesi dei testi di Battiato. Se non sapete chi è Battiato, vi comprendo: è un cantante, dunque scrive canzonette, o se si vuol dir così, canzoni, che quindi si possono canzonare.
E infatti, io a quell’articolo (vi prego: non dite “post”; “post”, oltre ad essere una parola inglese che a noi non serve in quanto stiamo parlando tra italiani, è pure una parola che fa schifo) ho replicato commentando: “Ora tocca a Gianni Morandi; è una vita che sospetto dietro i versi ‘fatti mandare dalla mamma / a prendere il latte’ si nasconda un messaggio sapienziale”.
Ho ironizzato. O almeno io credevo. Perché è poi andata così:

Mentre tornavo a casa l’altro dì a tarda sera in una strada buia e tempestosa ed ero solo come Pollicino, dalla nebbia agostana si materializza un’ombra barcollante; è un uomo pesantemente vestito, e viene verso di me. Mi faccio da parte sulla via, ma l’uomo sembra seguire i miei movimenti e per quanto io mi sposti a destra ed a sinistra, la sua figura sempre più vicina mi è davanti; rallento, perplesso: l’uomo è a due passi, all’ultimo istante scarto di lato ma egli si muove improvviso nella mia direzione e mi urta con la spalla, sparendo infine nell’oscurità.
Voltato verso di lui, non lo vedo più per quanto aguzzi lo sguardo. Lentamente, riprendo il cammino. Che strano incontro, penso. Un ubriaco, senza dubbio. Ma poi, mentre proseguo verso casa, mi vien da pensare: e se fosse stato un borsaiolo? Perdìo, avevo appena prelevato sei Euro! (la crisi, ragazzi). Febbrilmente slancio la destra sotto il pastrano a cercare il portafoglio, il portafoglio, tutto il mio contante di ferro!

Il portafoglio è lì, e tintinna pure tristemente; sollevato, ritiro la mano e percepisco tra le dita qualcosa di carta. Carta? – penso: da anni non tengo in mano della carta; guardo nel buio (come faccio, son fatti miei): è un foglio ripiegato, che io abilmente dispiego (e, se volete, vi insegno come si fa). Reca uno scritto e, ragazzi, io sento ancora i capelli rizzarsi sulla schiena (gli altri, non ci sono più), perché lo scritto era questo che vi copio in incolla. Ragazzi, Il Pendolo di Foucault era una bazzecola al confronto: la Sinarchia esiste, ed ora non so più che fare. Sono depositario di un segreto tremendo; chi può, mi aiuti.
Ma forse io sono già perduto; è per questo motivo che divulgo il testo di cui sono così misteriosamente venuto in possesso. Se queste saranno le mie ultime righe, sappiate che il Veglio della Montagna è Giann

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“Fatti mandare dalla mamma / a prendere il latte” –
‘prendere’; perché ‘prendere’ e non ‘comprare’? – è evidente il tentativo di nascondere qualcosa dietro lo stile di un linguaggio parlato, comoda scusa perché quando vostra moglie (ecco che ritorna la figura femminile: la moglie, che è anche madre, la “mamma” del verso, la quale dunque ha un doppio ruolo che quel verso non disvela, lasciando sia inteso solo dagli iniziati; Edipo è dunque presente anche nel pop? Esiste un continuum tra la mitologia greca, l’opera di Freud e Gianni Morandi?) – quando la moglie, dicevo, vi ordina: “compra il pane… e prendi anche l’olio e i pinoli”, non vi dice “compra anche l’olio ed i pinoli” perché il linguaggio familiare è, per natura, gergale. E a voi non resta che recarvi scoglionati al supermercato, senza capire cosa rimane celato dietro i pinoli.
Ma se questo ‘prendi’ volesse significare ‘ruba’?
Per scoprirlo, analizziamo l’atmosfera: chi sta cantando?
Il personaggio che esorta la fanciulla ad coinvolgere la madre-moglie è un ragazzotto che si agita e grida in modo stridulo, si avvinghia alle colonne, corre disordinatamente (scappa?) e si mescola ad un gruppo di giovani, del pari agitati. Sembra una sommossa, od una preparazione alla battaglia. Essendoci lì solo ragazzotti, la sommossa non è l’ipotesi più probabile; in che anni siamo? I primi ’60 del novecento; tra i Teddy Boys e le rivolte studentesche; di studentesco, Gianni Morandi ha nulla davvero e dunque non resterebbe che pensare ai Teddy Boys. Ci avviciniamo alla realtà dicendo che la scena rappresenta una banda di ragazzacci capitanata dal personaggio cantante il quale si rivolge alla ragazza la cui moglie, o madre, ha bisogno di latte?
Ne ha bisogno? E allora prendilo – direbbe un capobanda – cioè rubalo.
Come si è visto, la mamma è anche la moglie, dunque siamo in presenza di un quadro di omosessualità femminile; “fatti mandare da tua moglie a rubare del latte” dice in effetti il ragazzaccio alla fanciulla, che è evidentemente lesbica nonché ladra, e séguita: “devo dirti qualche cosa / che riguarda noi due”. Sta parlando di sé e della fanciulla, o forse di sé e di un’altra persona? “Noi due” potrebbe effettivamente riferirsi ad una terza persona tenuta nell’ombra, visibile alla ragazza (che dunque è una iniziata, probabilmente una vestale sacerdotessa del culto) ma non a noi che restiamo ancora profani.
Ma è davvero una persona, questa terza, o una entità?
C’è una terza illuminante possibilità: il ragazzo si esprime con il tipico lessico dei capobanda importanti che parlano di sé in multipla persona. In questo caso, s’intende chiaramente che il ragazzo non è al vertice della gerarchia, altrimenti avrebbe detto “noi” e ciò sarebbe bastato; dicendo “noi due” mostra con evidenza che non è più un singolo (“me”) ma non ancora una moltitudine, è stato solo promosso alla dualità, quindi è “un” capobanda e non “il” capobanda (vedete come dalla molteplicità del “noi” maiestatico si torni automaticamente alla singolarità, come in ogni buona religione in cui sempre esiste la compresenza di uno e molti in uno stesso individuo. Da ciò si capisce pure come il Dio cattolico “uno e trino” abbia solo un grado in più del nostro cantante, che è “due”, e dunque non sia poi quel gran Dio che si dice nella vulgata).
Ma questa “mamma” che è moglie della fanciulla, siamo certi non sia anche vera madre di qualcuno? Il ragazzo dice: “fatti mandare dalla mamma”, non “da tua mamma”. Ecco che è facile capire come egli stia parlando di una persona familiare; “dal-la mamma”; la moglie della vestale sacerdotessa del culto è anche la madre del sacerdote duale.
Il ragazzo, dunque, dice alla ragazza: “fatti mandare da tua moglie-mia madre / a rubare il latte di cui ha bisogno / devo dirti qualcosa che riguarda me” – è evidente che il ragazzo è in realtà un importante sacerdote del culto il quale sta per trasmettere un segreto sapienziale detenuto solo da lui e lui (insomma lui due), alla vestale, la quale è dunque prossima ad un rito di passaggio.
E il latte?
Il latte, come risulta ovvio anche ad un occhio profano, è l’alimento primigenio che la moglie-madre spreme da sé nella bocca avida del bimbo. Fuori dalla metafora, è il segreto di cui un’altra persona (un’altra vestale?) avrebbe bisogno per progredire nella conoscenza e che invece il sacerdote invita la vestale cui si è rivolto a rubare alla rivale, promettendole di rivelarlo solo a lei. Tutto chiaro? Niente affatto.
Perché la metafora del bimbo è eccessiva; il sacerdote parla con una iniziata, dunque non si rivolge a qualcuno che possa essere considerato una tabula rasa, un bimbo del tutto inetto ed incosciente. Il latte di cui il ragazzo parla quindi, non è per la ragazza. E allora per chi è?
Ed ecco il colpo di scena: il latte-segreto che il sacerdote invita la vestale a rubare è proprio per loro due, cioè per lui. Egli insomma dice alla sacerdotessa: “fatti mandare da tua moglie che è mia madre a rubare il segreto della conoscenza” e poi le dice: “devo dirti qualcosa che riguarda me”; è una chiara posposizione di frasi, come Tritemio faceva con le lettere; la versione corretta sarebbe allora: “devo dirti qualcosa che mi riguarda: fatti mandare da tua moglie-mia madre a fregare il segreto della conoscenza (che desidero avere per me – ndt)”. Ed è tanto forte il desiderio di questo segreto nel nostro sacerdote, che egli, senza di esso, si paragona ad un bimbo privo di ogni conoscenza.
Impossibile a questo punto non scorgere in questi versi scarni ma ormai svelati, la storia dell’Albero del Peccato Originale, e dunque ora possiamo dire che il ragazzo è Adamo il quale chiede ad Eva di farsi inviare dal serpente (che è femmina, lesbica, incestuosa ed è la madre di Adamo, dunque la moglie di Dio) verso il Frutto della Conoscenza che egli vuole inghiottire avidamente come un bimbo farebbe col latte. Adamo, in quanto figlio di Dio “trino” non è solo “uno”, ma almeno “due”, e vuole quel latte secreto dal Demonio per conoscere. Cosa vuole conoscere? E cos’altro potrebbe voler conoscere se non il modo di diventare “trino”? Perché non è che uno possa restar due senza tre tutta la vita, lo dice pure il proverbio e noi (e le nonne, altre figure femminili, vedete) sappiamo che i proverbi sono brandelli di saggezza, di sapienza, notate come tutto torna.
Adamo sta quindi studiando il modo di sostituirsi a Dio facendosi aiutare da quella diavola depravata di sua madre e quell’altra bisessuale infernata della sua amante e sorella.

E allora, in conclusione, Gianni Morandi, fingendo di voler solo cantare, ha gettato agli iniziati l’avvertimento di una scoperta sensazionale: esiste – e chissà dov’è celata in questo momento – una finora sconosciuta versione apocrifa della Genesi ove Dio ed il Demonio sono sposi ed Eva non è solo l’amante di Adamo ma pure la moglie di Satana, che è sua madre.
Ora la domanda è: il nostro cantante è in verità Indiana Jones, Dio, Adamo, Gabriele, l’Eone, la Barbelo, il Serpente o solo Gianni Morandi?
Non lo so. Io ho un grado intermedio, e certi segreti non mi sono ancora stati rivelati. Per àncora mundi, deinde inflatesss.

Abbiate fede.

La camicia nera, ed altre cose mirabili


La mamma è sempre la mamma; è anche sempre una donna però, e quindi ha una logica sua. Che talvolta è utile, come in questo caso di semi-fantasia.

Mia madre mi ha regalato una camicia nera.
E non per una ragione simbolica, perché questa mamma mia è potentemente comunista; forse causa una remota memoria ombelicale, invece, ella compra sempre qualche vestimento da regalare a me, quando le consuete sollecitudini mi portano in visita nella casa sua.
Ma nella scelta di questi regali, lei si cura per nulla che oramai io abbia la foto del passaporto sempre più brizzolata (la foto; a me invece i capelli cascano e i superstiti si mantengono tristi e melanici), né considera la possibilità che, dall’infanzia fin ora, possa aver sviluppato dei gusti miei; d’altra parte nemmeno io faccio in tempo a capire se davvero ho dei gusti miei e quali possano essere perché, non appena saluto i genitori e torno a casa, ecco che la mia compagna, a sua volta, mi accoglie con scarpe, ciabatte, maglioni, soprabiti, pipa, mustacchi e personalità che ha trovato al mercato ed ha comprato proprio pensando a me. Credo essere somma ragione di questo curioso comportamento parallelo, un femmineo duello a colpi di puro cotone per la conquista di un prezioso tesoro che poi sarei io.
Cosa posso fare: anch’io penso a me – alla mia incolumità intendo – e quindi indòsso docilmente la robaglia che m’ingombra i cassetti e “mi sta benissimo”, ne sia personalmente convinto o meno.
Critico come sono, però, ogni tanto vengo preso dalla fregola di valutare in proprio il senso estetico delle mie signore; mi vesto coi regali e staziono davanti ad uno specchio, cercando di capire se per caso non abbiano ragione loro: come sto? Mah, tutto sommato, quel giubbotto circense forse mi rende davvero più interessante, no? Mi rimiro da tutti i lati come una vergine ed infine ne convengo: ma sì, per uno psichiatra. E forse questi pantaloni sportivi avrebbero potuto cascarmi meglio, se solo fossi stato mezzo metro più alto ed avessi stravinto il campionato mondiale di body building, ma trovo che abbiano un loro fascino pensando a quanto mi sarebbero utili, dovessi mai precipitare dal quinto piano.
Ma in fondo, come molti uomini, non sono frequentatore degli specchi e così queste impressioni svaniscono rapide come sono venute, lasciando solo una sensazione di già visto, dove chissà. Forse allo zoo.
Dunque, come avete capito, io mi piego sovente ai voleri delle signore che dirigono la mia vita, però, in due o tre casi, dal fondo del mio amore filiale è sorta una ribellione che ha sorpreso anche me: -no, mamma: questo maglione a trenta colori col collo di castoro e gli alamari fosforescenti io non lo metto; abbi pazienza, che diamine, sono un uomo! Ma non potresti regalarmi una cosa un po’ sobria, scura, semplice, come si addice ad un maschio di questo secolo, che lavora, vive in città, è quasi rispettato ed ha perfino degli amici? – la mamma allora, con una sorpresa lieve e fatua come un seme di cardo, dice:
-perché? Questo maglione ti sta benissimo.
Tento la carta del sarcasmo, mentre sento l’allarme di forze che si attenuano: -mannaggia, mamma, eppure senza un copricapo di penne mi sembra così sprecato, il tuo bel maglione!…
La mamma non arretra certo per così poco e replica con sintassi femminile, come: -ma che stùpido che sei: è lana d’angora venusiana, ne hanno fatti solo tre al mondo e questo è il quarto, un pezzo unico!
Allora improvvisamente rammento che discutere con la mamma è pur sempre discutere con una donna, perciò smetto di discutere e m’impongo: -Perbacco, che logica schiacciante: hai ragione mamma, sono uno stupido, però ci vedo benone, e ora ascolta il tuo bimbo devoto: se proprio vuoi che faccia qualcosa per te, sono anche pronto a sposare la vecchia del piano di sotto, ma questo maglione non lo metto nemmeno per far cadere il Governo. E guarda che ho detto una cosa importante.
A questo punto, la mamma chiama mio padre, che arriva rassegnato, trascinando giornale e ciabatte.
-Internet non lo vuole; tieni, lo puoi mettere tu – dice imperturbabile, tendendogli l’intruglio ingomitolato.
Mio padre a questo punto fa una faccia da appeso per i piedi e tenta una penosa manovra di autosalvamento che sempre molto mi commuove: egli mi guarda come un cocker con la blefarite, poi guaìsce:
-ma no, sta meglio a te… ti cade bene, guarda, anche le maniche son giuste, tu hai le spalle più larghe, e poi sei giovane…
Però io ricordo quel venerdì di quarant’anni fa, quando lui non volle comprarmi il gelato, e così:
– Oh no, papà, vedi: ha proprio il colore della tua ulcera; sta senz’altro meglio a te – glielo metto in spalla ed esplodo d’entusiasmo come un berlusconi port’apporta: – ma una bellezza, sei una bellezza! Trent’anni di meno! Ma che dico: ancora meno! Come sei fortunato, papà! Ah, come sei bello! Ah…
E mio padre capisce: dopo un ultimo sguardo dolente, con maglione e giornale ciondoloni, ciabatta via a capo chino. Domani uscirà vestito da Uomo Mascherato sensazionando il quartiere che, di suo, era in corso di rivalutazione, mannaggia a noi.
La mamma è persona profonda, ricca e complessa e non ha solo l’idea del nuovo acquisto a capocchia, naturalmente: per esempio, ella è anche convinta che ad ogni uomo siano indispensabili delle “mutande d’emergenza”. Nello strano caso qualcuno di voi non conoscesse le mitiche mutande d’emergenza, faccio la faccia di Nanni Moretti a proposito della Sachertorte, e spiego:
È un interessante capo d’abbigliamento che consiste in un normale paio di mutande (scegliete a vostra preferenza) però rotte, strappate e senza l’elastico: questo è il modo semplice e geniale in cui potete trasformare una volgare e bracalona, vecchia mutanda, in un prezioso accessorio d’emergenza.
Se ora vi state chiedendo in quale occasione emergenziale possano essere necessarie delle mutande sdrucite che vi cascano in terra, ebbene sappiate che anch’io me lo chiedo da anni (fantasticando anche su incendi e conflitti nucleari dai quali potrei misteriosamente uscire illeso grazie alla preveggenza materna); confesso di non aver trovato ancora una risposta certa a tanto quesito, ma – poiché sono stato battezzato –
accetto il mysterium magnum della mutanda straccia che mia madre custodisce come il segreto di Fatima e guardo con timore e reverenza quel cassetto dove sono conservate: so che un giorno saprò.
E poi la mamma è anche fantasiosa cuciniera: a Natale, forse mèmore di chissà quali avi ostrogoti, cucina a sorpresa cose come il branzino; in tali occasioni noi esercitiamo il nostro lessico familiare e, petulanti come San Tommaso, leviamo questioni così:
-mamma, ma è il tacchìno, no il branzìno che si fa a Natale!
-in Alabama sì, qua in Potagonia è diverso – echeggia lei, da dentro il frigo
-mamma, ma che cristo di branzino hai preso? Ha il becco.
-il becco si butta, mangia la coscia e anche tutte le ortiche sennò San Coso non ti porta la scatoletta – taglia corto la mamma il cui spirito tosco, quando irritato, risuona d’echi di lontane battaglie, dacché noi ci tacciamo ed ingoiamo lo strano spigoloso animale pregando per la nostra e la sua anima.
Di tutte le varianti della fantasia materna di relazione, comunque, quelle legate agli abiti restano le più immediatamente percepibili, e non può che essere così, grazie a quelle fogge e quei colori; ma tra guanti da motociclista con pelliccia di zibellino blu, giacche screziate di inserti in cuoio afgano, calzoni con tasche finte per farti cadere i soldi in terra, scarpe tricolori come la bandiera, cravatte di lana grezza color pancreas e sciarpe da spiaggia, io, la camicia nera, non l’avevo mai vista.
-Volevi un colore solo, no? – dice la mamma in piedi davanti a me, prendendo l’aria di Colombo con l’uovo
-Sì, ma…
-Beh cosa c’è? Tutto a posto, no? Come hai detto tu: scura, un colore, semplice, molto elegante. E ti sta benissimo. Tieni – conclude, ficcando la camicia tetra in una sporta ed accompagnandomi all’uscio.
Me la sono voluta. La camicia nera è dunque arrivata a casa ed è rimasta in un cassetto, per parecchio tempo intonsa. I motivi che m’impedivano di indossarla sono difficilmente esternabili: piccinerie forse, sensibilità; ma un giorno, indisponibili le altre camicie, l’ho vista lì, a portata di piglio, ferma, tranquilla, inoffensiva; ho pensato però e se e come e ma, finché mi sono ribellato a me stesso, esplodendo: – oh, insomma, quante storie! Stavolta la mamma ha ragione, questa è proprio una camicia come tante, ed è nera perché è tinta! Mica ha il distintivo littorio, mica ha la bandoliera bianca a croce con la giberna e il monogramma, mica devi andare al sabato fascista! E metti ‘sta camicia, che siamo nel duemila e il mondo è quello di oggi!…
-…appunto…- m’ho replicato timidamente, ma ormai l’altro me aveva preso un abbrivio da vero tribuno:
-dài, dài, finiscila, che se ti sente qualcuno ci fai una figura da fesso; sii uomo invece, e metti ‘sta camicia, nera che sia; o preferisci uscire con la giacca sul torso nudo? E poi, andiamo: ti pare di aver l’aria da gerarca solo perché hai una camicia scura? E gli stivali allora? E il kepì? E i calzoni con lo sbuffo? E il moschetto? E il grugno da imbecille? Su vestiti, e sbrigati, che dobbiamo uscire.
Così mi sono obbedito ed ho scartato la camicia buia. Frusciava più delle altre, ed era piena di spilli.
Eccomela indosso. Elegante è elegante, non c’è che dire.
Porca l’oca, sarò sciocco, ma mi fa impressione. Mi par già d’avere la faccia più da fesso. Perché sto così accigliato? Sorridi, su, che i gerarchi non sorridevano mai, però non troppo sennò sembri un berlusconi; misura, ci vuole: un sorriso a quindici denti, non uno di più. M’ingiacco ed esco, ché lo specchio, come diceva Borges, già m’inquieta.
Sono nel mondo. Prendo il giornale dal solito edicolante, ma oggi il simpaticone ha un sussulto che gli smorza il saluto e la battuta; mi guarda, bofonchia qualcosa, sorride in modo che sembra impacciato, poi si mette a rassettare i giornali con gran lena, dandomi le spalle.
Sarà stata una mia impressione, penso. Ora sono al lavoro, devo incontrare un fornitore. Eccolo che arriva, ci presentiamo: sbaglierò, ma mi guarda la camicia e poi la faccia, insomma si presenta fissandomi il torace, e davvero c’è ben poco lì che dovrebbe interessarlo. Mi pare un po’ a disagio, eppure io sono loquace e cordiale, disinvolto anche, e gli offro un caffè. Nero. Ma preferisce un succo d’arancia, dice con aria di scusa. Anch’io, lo informo. Sembra sorpreso.
Attraverso a piedi con passo svelto il corso, per andare da un cliente ed incrocio mezza città che cammina. Cammina e mi guarda. Due ragazze vengono verso di me e mi indicano sussurrandosi qualcosa; da un bel po’ non mi capitava, sorrido, ma loro non sorridono, anzi: non ricordo d’aver mai visto espressioni tanto severe.
Il mio cliente mi accoglie un po’ come il giornalaio: stava per dirmi qualcosa ma s’è interrotto, mi dà un rapido sguardo tra colletto e cintura, fa una pausa e scosta la sedia più indietro. Concludiamo l’accordo rapidamente, poi lui si scusa tanto, ma ha proprio da fare; mi saluta guardando altrove.
Fa già un po’ caldo e mi toglierei volentieri la giacca. Che faccio, la tolgo? Quel me tribuno mi esorta da par suo: -ossignòre: ma comprati un colbacco, se ti fa sentir meglio, e tògliti la giacca prima di cominciare a sudare come un pugile. Poi potresti nasconderti sotto una siepe, vah, così non ti vede nessuno e stai pure all’ombra.
Per non darla vinta alla mia seconda personalità sarcastica, mi siedo in un bar all’aperto, mi sgiàcco e prendo una roba fredda. Da un tavolo vicino un tizio mi fissa con aria seria, poi parla con uno girato di spalle che si volta a guardarmi. Il cameriere che arriva mi appare particolarmente di malumore: non dice una parola e fila via prima che abbia finito di parlare. I due tizi di prima mi lanciano occhiate che, se soffrissi di mania persecutoria, potrei definire: di odio. Torna il cameriere e mi sbatte sul tavolo un caffè, sfrecciando oltre. Passa una coppia che ride, mi vede e non ride più. Un bambino piange. Un cane abbaia.
Mi guardo intorno con leggero disagio, ed improvvisamente vedo un individuo con gli occhiali scuri su un volto un po’ teutonico, serio e duro, dall’espressione antipatica. L’individuo è vestito di nero come un beccamorto e mi fissa. A tal punto quell’immagine mi irrita che stavolta lo fisso anch’io con sfida e, per fargli maggiormente pesare il mio sguardo, mi tolgo gli occhiali da sole; contemporaneamente, lui fa altrettanto.
Allora scopro che mi sto guardando riflesso in un vetro del locale. Hai capito, come stanno le cose…
-Ah, bene – penso, e comincio a sentirmi molto meglio; se questo è l’effetto di una camicia nera dopo tanto tempo e tanti libri di Gianpaolo Pansa, la giornata si chiude con un buon fatturato. Dovrò ringraziare mia madre: il suo regalo è stato illuminante come una bastonata zen. Penso che, quando vorrò sollevarmi il morale dopo aver letto, che so, di calderoli o di ferrara, metterò la camicia nera e me ne andrò un poco in giro, magari con passo marziale, ad irritare la gente, a suscitare una sacrosanta antipatia. Potrei essere una molecola nera che gira per la grande città, provocandone la reazione riflessa: una sorta di medicina omeopatica.
E perché no; visto che i farmaci tradizionali non funzionano più, contro il fascismo.