Capirsi bene


Quante volte, soprattutto su internet, si litiga solo perché mal ci si comprende. Riflettendo su questo, mi sono ricordato una storiella che ascoltai molto tempo fa e che faceva più o meno così:

Sulla strada che scende dal convento, Frate Mansueto cammina con un cesto di mele verso l’ospedale dove è stato ricoverato il suo confratello Frate Pio.
Entrando nella stanza, il fraticello vede una figura stesa sul letto, con le membra in trazione e coperto di bende; aguzzando l’occhio, riconosce un ciuffo della barba di Frate Pio.
–     Frate Pio! Sono Frate Mansueto… che il Signore vi protegga!… cosa vi è accaduto?
Il degente torce dolorosamente lo sguardo verso la figura china su di lui
–     Frate Mansueto… Dio vi benedica… grazie di questa visita…
–     Come siete sofferente, fratello!  Eravate in gran salute ieri al vespro… quale incidente tremendo vi ha portato qui?
–     Oh, Frate Mansueto… –  sospira con fatica il monaco tra i bendaggi – voi sapete che questa mattina ero comandato alla questua in paese… dal nostro convento alla valle vi sono dieci miglia tutte in discesa ed io, mercè questo bel clima di primavera, ho pensato fatuamente di prendere la bicicletta…
–     Oh, siete caduto dalla bicicletta, frate Pio?
–     No! Perché avevo fede nella divina protezione!
–     Giusta fidenza, avete ragione, sia lode a Lui
–     Sia lode
–     Amen. Ma allora cosa vi è successo?
–     La bicicletta, Frate Mansueto, era senza freni ed io non me ne ero accorto.
–     Allora siete andato a cozzare contro le sponde della strada, Frate Pio?
–     No, vi dico, perché sentivo su di me la mano benevola di Dio.
–     E’ vero, si sente, Dio sia lodato
–     Sia lodato. Ho imparato dunque con il Suo aiuto a curvare sui tornanti in tutta sicurezza, mentre viaggiavo tanto rapido che la barba mi si era annodata dietro le spalle. Purtroppo, dietro il terzo tornante, sulla strada c’era un gregge di pecore.
–     Santi cherubini! Avete urtato un gregge di pecore!
–     Ma no, Frate Mansueto, perché vi ho detto che Dio mi proteggeva!
–     Ah, giusto. Ma allora…
–     Ho pregato con fede, ho detto: “pecorelle di Dio, scostatevi che passo io!”
–      E le pecore…
–      Si sono scostate!
–     Miracolo!
–     Dio è buono e misericordioso
–     Sia lode a Lui
–     Sempre sia lodato. Ho allora continuato la mia corsa, sollevato nello spirito e grato al Signore, finché, al quinto tornante, non mi sono trovato improvvisamente davanti un cerbiattino che traversava la via. Non avrei mai potuto scansarlo e dunque ho pregato, ho detto: “cerbiattino di Dio, scostati che passo io!”
–     E il cerbiatto…
–     Si è scostato!
–     Voi siete un santo, Dio vi ascolta!
–     Dio ascolta tutti noi, fratello
–     Oh certo, Frate Pio. Egli ci ama tutti e sempre ci protegge. Sia lodato il Signore
–     E lodiamolo!… Così ero ormai quasi giunto alla fine della discesa, là dove avrei potuto fermarmi, ma ecco che, all’ultimo tornante, un grosso maiale occupava la strada proprio in fronte a me.
–     Beh, ma anche in questo caso voi…
–     Sì, io ho pregato. Ma evidentemente ci deve essere stato un malinteso.

Il genio del marketing


Giuseppe Barellai (Firenze 1813-1884) medico – detto, con suo piacere, “il padre dei gobbini” – è stato il creatore degli ‘ospizi marini’, luoghi gratuiti di degenza in località di mare per bambini poveri affetti da tubercolosi. Grazie alla sua iniziativa, migliaia di piccoli malati poverissimi ricevettero cure adatte ed ebbero salva la vita.

Ignác Fülöp Semmelweis (Buda 1818-Döbling 1865) medico, scoprì la causa della ‘febbre puerperale’, una infezione fatale dell’utero trasmessa dagli stessi medici dell’epoca, perché essi visitavano le pazienti, dopo aver praticato autopsie, senza avere l’accortezza di disinfettarsi preventivamente le mani (Pasteur era di là da venire). Il medico ungherese capì tutto e vinse la malattia, ma la sua fu una vittoria brevissima.

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Il dottor Giuseppe Barellai era stato un bambino tisico, come anche suo fratello; guarirono, potendosi permettere una lunga degenza al mare dove vi era nell’aria salsoiodica l’unica possibile terapia del tempo a quel male. Terapia sufficiente, talvolta. Da adulto è medico, e negli ospedali vede morire i bambini affetti dalla sua malattia; bambini poveri, perché ai poveri anche l’aria costa, quando è di qualità.
L’ingegno suo è semplice e logico: portarli al mare, per guarirli.
Ma come si fa a dare agli altri le possibilità che non hanno? Per vincere una battaglia sociale non ci vuole un semplice medico, figura solitaria china alla ricerca delle ragioni del male e intenta ad artifizi per combatterlo: qui ci vuole un politico, un mediatore, forse un venditore; ci vuole qualcuno che convinca la gente della bontà di una idea.
E allora, per tentare l’enorme impresa di migliorare non una semplice vita, ma addirittura la società, il medico ospedaliero Barellai si fa uomo di spettacolo, imbonitore di piazze e salotti, e mette in scena il dramma dei suoi pazienti sciagurati davanti ad una platea di comodi borghesi.
Forse aveva capito, Barellai, che l’attenzione evita la realtà, che siamo sleali con essa; la scansiamo quanto possiamo perché è brutta, noiosa, sgraziata e manda cattivo odore, ed invece una rappresentazione della realtà è talmente lontana che possiamo guardarla senza sentircene oppressi.
Dev’essere per questo motivo che il medico, allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema, non porta i suoi concittadini a visitare l’ospedale di bambini morenti: porta la scena a loro, scritta su un copione che recita come un corifeo ed il coro che calca le sue parole è quanto di più moderno si possa pensare, infatti sono immagini.
La fotografia non era ancora pronta per l’uso, ma c’erano i pittori, e quindi Barellai fa eseguire da un amico artista grandi quadri e disegni che nelle sue rappresentazioni (chiamarle “conferenze” ne sminuirebbe il genio) scopre e mostra agli spettatori aiutandosi con toni di tragedia: “…Voi, o Signori, sapete che se ogni infelice accolto negli spedali merita e muove compassione, superiore a qualunque altra è quella che sentiamo al vedervi ricoverato un fanciullo…” – dice, ed indica immagini di bambini, nei loro letti, affetti dal male; i quadri li raffigurano coi visi tondi e gli occhi grandi e dolenti.
Un particolare di quei disegni ci fa capire la diabolica astuzia che il medico destìna al bene dei suoi pazienti: è ben visibile sui lenzuoli, sotto i visini dei bimbi, il marchio dell’ospedale che li ospita e ciò vuol dire agli spettatori, sub-liminarmente: inchiodatevi nelle teste quelle figure associate al male che le invade, non distraetevi a considerarle in favola: quel bimbo esiste, sta male realmente, la storia è vera, ecco, vedete qui: il timbro dell’ospedale che ben conoscete.
Il medico narratore lascia che il suo farmaco, nascosto nella storia raccontata, abbia l’effetto che deve.
Ed eccolo: il borghese si agita sulla sedia, qualcuno si commuove fino alle lacrime, la rappresentazione della morte si infila pura nell’anima senza incontrare ostacoli, come a teatro; il dottor Barellai ha in pugno il suo pubblico, lo ha fatto piangere di commozione e ora, come un drammaturgo, ha in serbo: il lieto fine.
Quei bambini, si possono salvare.
Il borghese commosso dal senso dell’ineluttabile aspettava calasse il sipario su questa storia accorata (siamo in pieno romanticismo) ed il colpo che cambia la scena è uno schioccante balenìo di Paradiso; il borghese scatta di attenzione redentiva: Si possono salvare?  E come?

Forse il medico-procacciatore di salute incede lento adesso, sorridendo astuto dentro di sé; aspetta che la voglia di redenzione del borghese diventi un bisogno esplosivo, attende con una pausa e poi, a tono basso, come per un segreto, rivela: – pensate: i bambini muoiono solo ed unicamente perché non possono andare al mare a respirare l’aria che li salverebbe, e non ci possono andare perché sono poveri; è questa la sola ragione che li uccide -. Lo sottolinea, il dottor Barellai, senza accusare nessuno (questo fa, contrariamente al dottor Semmelweis che grida a tutti in faccia: – assassino, hai ucciso tu i miei pazienti, la pagherai!). Barellai non accusa, perché forse è consapevole che il segreto della socialità è nella frase: “esclusi i presenti”; tutti esclusi, insomma. Nessuno deve sentirsi colpevole (reagirebbe con ostilità), ma tutti invece devono potersi sentire coinvolti in una soluzione a portata di mano, che ha da essere facile e deve rendere grande merito con poco sforzo; è così che si lega il prossimo a qualcosa.
Ed ora può avanzare sicuro, il medico Barellai, con la sua soluzione in bella vista: vedete, muoiono; hanno bisogno di mare ma sono poveri; però noi possiamo donargli il mare e salvar loro la vita, possiamo fare ospedali lungo le coste, signore e signori, colonie marine per i bambini; guardate ancora una volta quegli occhi moribondi: non vorremmo ridare la vita a quegli angeli malati? Hanno bisogno di mare, solo di mare; è tanto semplice, per un risultato così grande, per un merito così grande.

Chi lo sa se sa di essere furbo, il medico venditore di giustizia equanime, od agisce così perché è organico a quella società tanto da averne la medesima lingua e uguali i modi; come che sia, lui entra come un bisturi nelle viscere emotive del suo pubblico: i borghesi con la vista annebbiata dalla commozione offrono il denaro applaudendo, lo lodano, lo ringraziano, e si può credere bene: ha dato loro una sicura redenzione per quattro spiccioli!
E allora gira l’Italia come gestisse un circo, il dottor Barellai, e mette in scena sempre lo stesso spettacolo che parla della tristissima storia di due bimbi buoni e sofferenti, delle loro mamme povere che portavano loro dei fiori, confessa che un dì s’allontanò per piangere, nel vedere la dolcezza con la quale il bimbo morente accoglieva la sua mamma (un medico che piange per il suo paziente è una immagine che travolge i sentimenti), parla delle piccole felicità dei malatini nella loro agonia lunga, insomma della vita pur presente in quella malattia che si sarebbe potuta guarire, e infine della loro morte inevitabile. Oppure evitabile così facilmente; come? Con gli ospedali sulle coste. La gente si calpesta per offrire un contributo, nascono comitati fautori dell’iniziativa.
Barellai ce la fa, ce la fa così facilmente: da Grado a Loano, attraverso tutto il perimetro rivierasco d’Italia si aprono ospedali gratuiti per bambini tisici. Il medico fiorentino è riuscito meravigliosamente nel suo intento e salva tutte le vite che non avrebbe osato credere di salvare nemmeno quando – studente o giovane praticante – chissà quanto sognava.
Ora è per tutti un benemerito, un uomo giusto, un grand’uomo; la gente lo ama, i colleghi lo stimano (perché non è un concorrente clinico, non è un medico migliore di loro, è invece un bravo organizzatore, cioè un’altra cosa) la società lo premia, egli viaggia per conferenze esportando perfino all’estero la sua bella idea; ha vinto perché ha dato a tutti la sensazione di essere utili; ha realizzato un cambiamento epocale senza combattere. Ci è riuscito con un po’ di ragioneria e altrettanta psicologia.

   Giuseppe Barellai ha la stessa tensione a fare del suo collega ungherese, il dottor Ignác Semmelweis, ma in testa, oltre che nelle viscere; non ha i lampi di di genio dell’altro, né uno stimolo furioso, ma è un accorto progettista che cerca come far stare in piedi la struttura. Se Semmelweis vede cose che gli altri non sanno vedere, Barellai sa come si raggiungono gli scopi, perché ha la calma e la sapienza sociale di un uomo maturo.
Da come agisce s’intende quanto, come medico e come uomo, Barellai sappia che la parte amara della vita non può essere cancellata: vi si può al massimo rimediare in parte, attenuarla un poco ed è questo che egli si apprende a fare, con progetto e con metodo, in modo lento e continuo, seguendo della sua epoca le consuetudini, così efficace nel farle proseguire su un altro e migliore sentiero; da medico, usa la commozione come un farmaco per far reagire il cuore della società al suo richiamo; è un pifferaio magico, chi sa quanto consapevole; un esperto imbonitore che vende la lozione buona e che funziona. Gli altri se ne accorgono? Forse nemmeno lui se ne accorge. Fa parte di quella stessa gente che va conquistando, tanto che forse è solo questione di linguaggio. Parlano la stessa lingua, quei buoni borghesi; si ascolta lui, e lo ascoltano gli altri. E vanno avanti insieme.

Il suo collega magiaro, il dottor Semmelweis, il medico delle partorienti, non era così: non poteva essere più diverso; anche lui non accettava la sconfitta della morte, ma in modo troppo emotivo; il dottore soffriva della altrui sofferenza tanto da gemere come il suo paziente; come Frankenstein, avrebbe ridato vita ai cadaveri ed a differenza di Frankenstein, la morte era per lui solo l’esito della colpevole ignoranza dei suoi colleghi. L’ignoranza dei medici era l’assassina, e questo pensiero straziava la delicata e preziosa mente del dottore.
Negli stessi anni in cui Barellai portava avanti la sua opera di medicina sociale, Semmelweis, dall’animo ragazzo, era intollerante come un fanciullo nervoso. Non sopportava che altri capissero meno di lui. Curiosamente, lui non capiva come si potesse non capire, e impazziva di rabbia contro chi proprio non riusciva ad intendere che il suo metodo avrebbe funzionato; dopo tutto cosa andava dicendo, Semmelweis, cosa aveva scoperto: semplicemente, che bisognava lavarsi le mani; le donne gravide morivano perché i medici non si lavavano le mani e le infettavano. Ma i suoi colleghi lo guardavano come un interdetto e non capivano cosa quell’ostetrico esagitato andasse predicando. A quell’epoca infatti, i microbi non si conoscevano; il dottore ungherese solo, li vedeva: lui aveva capito che c’erano.
E’ vero: nel reparto di Semmelweis, che imponeva ai colleghi il lavaggio delle mani con cloruro di calce prima di ogni visita, le partorienti non morivano più, mentre in tutti gli altri reparti la febbre puerperale uccideva fino al quaranta per cento delle degenti, ma questo dato non fu sufficiente ai suoi contemporanei perché si chiedessero quale rimedio avesse scoperto Semmelweis, non li spinse ad avvicinare il collega che riusciva vincere il male, per domandargli come facesse; quel miracolo non fu sufficiente perché Semmelweis era considerato intrattabile e nessuno voleva avere a che fare con lui. Egli offendeva tutti, dava subito dell’incompetente a chi lo contrastasse, prendeva iniziative senza un preliminare accordo, era ostile. E così i suoi successi provocarono in breve, negli altri medici, solo invidie professionali ed avversione.
Semmelweis, non cercando alleati e non costruendo macchine di convincimento, non andando per gradi, dimostrava di non essere un buon conoscitore dell’animo umano – almeno quanto Barellai non era propriamente un genio –  o l’incongruenza tra le sue azioni ed il risultato che si poneva gli sarebbe apparsa chiara, con un sorriso rivelatore; non capiva l’importanza della socializzazione perché aveva uno spirito violento; non fosse stato medico sarebbe potuto essere uno sterminatore; tutto in lui era come la tensione dei muscoli prima di un colpo. Era un giustiziere biblico: la sua ragione non era per il dialogo, era uno stendardo di guerra pieno di vento.
Sopraffattore per indole, quanto il mite Barellai era invece un diplomatico, nella loro storia ed in quella generale della scienza entrambi avevano ragione, per avventura. Ma Barellai riuscì a percorrere la sua strada nel suo tempo ed arrivò al traguardo, mentre Semmelweis, in un angolo,  combatteva furiosamente contro tutti come un cavaliere solitario, come un patriota acceso; combatté, da solo, contro l’ignoranza della società intera.
Ma la società offesa reagisce, ed uccide lenta i suoi accusatori come fa un grosso serpente: ostacolandoli nei movimenti fino a paralizzarli e sottraendogli l’aria a poco a poco; Semmelweis fu licenziato dall’ospedale in cui aveva ingiuriato i primari e dato degli “assassini” ai colleghi, perse i pochi amici che si ostinavano a sostenerlo, giacché sostenere Semmelweis voleva dire partecipare del suo bando. Il temperamento aggressivo infine gli costò la libertà: l’autorità dei colleghi che aveva reso suoi nemici lo dichiarò pazzo; il medico fu internato in manicomio, screditato e deriso malgrado i suoi enormi successi nelle cure, venne sottoposto a contenzione, fu trattato da alienato.
Non compreso, emarginato, abbandonato e vinto, Semmelweis non era più di aiuto per nessuno; prive del loro geniale dottore le partorienti ripresero a morire, mentre la mente guerriera e frustrata del medico, senza più la possibilità di aggredire un nemico esterno, si rivoltò contro di lui e Semmelweis impazzì davvero; fu visto correre seminudo per le strade, gridando verso il nulla come un qualunque folle, si fece sempre più del male, finché, non potendo uscire dal suo confine di angosce crescenti, il dottor Semmelweis si uccise.
Lo fece però nel modo più lucido: ferendosi con un bisturi ed affondando le membra ferite nelle viscere putrescenti di un cadavere; volle avvelenarsi, così, nel modo – che lui aveva scoperto –  in cui i suoi colleghi avvelenavano inconsapevolmente le proprie pazienti in gravidanza, quando le visitavano cruentemente, senza lavarsi le mani dopo aver operato nelle sale anatomiche. Semmelweis il disperato, Semmelweis il violento, disse insomma, con quel bisturi: “ora lo vedete cosa mi fa morire, lo dovete vedere anche voi, maledetti ignoranti, che ho ragione”. Ma nemmeno quest’ultima prova riuscì a convincere alcuno, perché lui non seppe mai convincere: egli fu efficacissimo solo nel farsi odiare e compatire come un detestabile pazzo.
Solo anni dopo la sua morte trista e brutta, Pasteur scoprì che il dottor Semmelweis, quell’esagitato delirante, sì, aveva avuto davvero ragione.

Cosa si può dedurre da questa storia incrociata. Penso che sia giusto così: Semmelweis e Barellai ebbero entrambi una grande idea, ma uno non conosceva il marketing.

10,1 STORIE ZEN


Chi non ha avuto questa passioncella? Certo insieme al Lupo della steppa di Hesse ed ai trip di Castaneda e Don Juan, mentre – stranamente – sfido tutti a ricordare un amore giovanile per il Pinocchio di Collodi, che pure era allucinato gran bene. Ma con le Storie zen ci siamo fatti delle belle storie, dite la verità. E anch’io, come voi, avevo un amico zen, troppissimo zen, talmente zen che dopo un po’ mi era venuta una maligna voglia di sluminarlo.  Scrissi così per lui le 10,1 Storie zen e quando egli mi chiese (ingenuamente, perché in fondo i maestri zen sono dei tatoni) “perché 10,1?” – gli risposi, secondo me in modo molto zen: “perché 11 avrebbero già rotto i coglioni”.  Ora sottopongo queste storie alla vostra smeditazione. Metteteci pure trent’anni, pare che il tempo conti poco per lo zen; l’importante è che – come il mio amico – alla fine vi sluminiate, insomma vi addormentiate sereni.

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PREFAZIONE

“Nel suo ultimo giorno di vita Tanzan scrisse sessanta cartoline postali e incaricò un suo assistente di impostarle. Poi morì. Sulle cartoline c’era scritto: Sto per andarmene da questo mondo. Questo è il mio ultimo annuncio. Tanzan 27 luglio 1892.”
Questo è un racconto zen, un vero racconto zen, come ci viene tramandato da una sublime letteratura volta ad insegnare, come appare, l’ineffabile arte di prendersi per il culo. Ma se invece fosse una straordinaria prova di umorismo? Cioè, se questi racconti zen, piuttosto che rappresentare la più alta vetta nella mancanza di rispetto per la ragione umana e per l’uomo in tutte le sue essenze, anche le meno puzzolenti, invece che essere una forma infantilmente presuntuosa di incapacità di approfondire il pensiero, fossero un enorme scherzo, una gigantesca burla tramandata per secoli?
Ce li immaginiamo, i maestri zen, lì a prendere il caffè: – E quello mi chiede tutto fremente: “ma sulle cartoline cosa c’era scritto?” Si aspettava chissà che, capite, allora gli faccio: “Sulle cartoline c’era scritto: Saluti e baci, Tanzan, data e timbro postale” –  e giù tutti i maestri a ridere come scemi. –  E io, e io, quello mi dice: “Maestro, quanto ci metto a imparare lo zen?” E io: “vent’anni”. “E se mi impegno?” E io: “trent’anni”.Vedessi che faccia! Eh, ma sei proprio uno stronzo! –  e giù risate.
E’ interessante notare che alcuni lettori giapponesi considerano i tradizionali racconti zen parte di una eccezionale letteratura comica, forse un tempo recitata da attori itineranti nelle corti degli antichi regni, per svagare i sovrani incazzosi, al pari della tradizione europea della Commedia dell’arte.
Bello, no? Questo metterebbe tutto a posto, sarebbe una bella scoperta, ci riconcilierebbe con l’animo orientale di cui non capiamo un cazzo sì, ma perché era uno scherzo, in realtà i nostri fratelli asiatici non sono pazzi o imbecilli, ma uomini di buon senso che non crederebbero mai bastino due chiacchierelle oltretutto veramente sceme per “illuminarsi” nientemeno che su un fantomatico senso dell’universo, eh via!

Dunque, ebbene è proprio così, vedete; una lunga ricerca filologica e scettica ha scoperto in polverosi archivi della dimenticata tradizione filosofica orientale antica, scritti che risolvono il mistero da sempre presente come un’ombra folle su tutta la storia del continente asiatico: la letteratura zen è uno scherzo da Amici Miei, antichi buontemponi che ne hanno dette di tutti i colori, per divertirsi alle spalle dei contemporanei. Chissà come riderebbero vedendo cos’hanno combinato ai posteri.
Questi simpatici (e pericolosi) personaggi, però, non hanno inventato niente: si sono limitati a parodiare  racconti popolari realmente esistenti a quei tempi dando loro un senso quanto più possibile astruso e si sono divertiti tanto che dalle 10,1 storie tradizionali, ne hanno ricavate addirittura 101; anche da questo eccesso si evidenzia, se mai ancora ce ne fosse bisogno, la prova dello spirito goliardico che animava i “maestri” Tanzan, Sen No Rikyu, Gasan, Subhuti, Hakuin ed Alessandro Bottolenghi.
I racconti veri, originali, parodiati dal gruppo, sono ora presentati in questa raccolta: si tratta di storie serie, naturalmente, a volte drammatiche, molto reali ed umane comunque, alcune forse noiose, come a volte è la vita, in ogni caso sicuramente assai meno divertenti delle “101 Storie Zen” della tradizione, ma vanno conosciuti per curiosità, per cultura e perché non si pensi che in Oriente non si pensi. Un utile glossario aiuterà il lettore a familiarizzarsi con il mondo dei valori narrato nelle storie che seguono. Buona lettura.:

GLOSSARIO

BUDDISMO:    Forte il buddismo: si differenzia dalle altre supposte perché non ti promette di arrivare ad ammirare il sacro volto di dio, come da noi, che non sembra un programma interessante, soprattutto nell’eternità, oppure, come fanno gli arabi, stare per sempre a darci come un coniglio con le Urì (e va già meglio, vero, però alla lunga…) o svanire e fottersene come gli indù.  No, qua si tratta di DIVENTARE dio, ragazzi, mettetevi d’impegno orca, studiate.

FIORE DI LOTO:   Non si sa che cazzo c’entri sempre il Fiore di Loto: è come se noi che abbiamo l’agrifoglio, detto pungiculo, mettessimo il pungiculo in ogni nostro romanzo come personaggio di spalla; al minimo gli altri personaggi si iscriverebbero subito nelle liste di collocamento. Come insegnano Pirandèllo e Queneau, infatti, queste sciocchezze non si possono fare impunemente.

GIAPPONE:     Il Giappone che li ha creati, se ne fotte dei raccontini Zen avendo soddisfatto il lato spirituale dell’esistenza con qualche bagno sociale in sottoscala irti di bonsai trompe l’oeil per far credere di stare in un vero giardino, una volta nella vita. In compenso il contante Yen fa, al mondo che si diverte, un sedere tanto.

KYOTO:            Città.  Fa il trio con Washington e Genova delle canzoni di Dalla e Bruno Lauzi.  Non serve a niente andarci, quindi.  C’è poi sempre il rischio dell’illuminazione, a Kyoto.

ILLUMINAZIONE / ATO:   Cfr. Abelinazione / ato.

MAESTRO ZEN:   Il contrario del Maestro Manzi.  Per il Maestro Zen non è mai troppo presto per rincoglionirsi.  Nella Tradizione Scettica Universale l’apparizione di un Maestro Zen è ritenuta segno di sciagura.

MEDITAZIONE:   Dipende: è come un cono gelato, può essere piacevole o malefico secondo come lo usi. Nell’accezione zen comunque, il significato è racchiuso nella massima di Goya: – “Il sonno della ragione, vuoi vedere che ti genera la meditazione?”.

RACCONTO ZEN:   Detto anche “Koan” o “Cerchio Eterno Alla Testa”, è una filastrocca ipnotica alla maniera delle occidentali parabole, prediche, salmi, orazioni, consigli per gli acquisti e quant’altre supposte conoscete.  Raccomanda, con sorprendente originalità, l’affrancamento dal contingente a cominciare dalle femmine (o maschi) sempre tanto superflue, per concludere con il distacco da meschinità quali il cibo e l’aria, senza dire dei soldi, così poco necessari.Grazie al Racconto Zen, l’Oriente e l’emisfero australe sono arretrati di cinquecento anni rispetto a qui e la gente, conscia della propria superiorità morale, crepa filosoficamente de fame; eh beh.

RITUALE DEL TE’:   E’ una roba difficilissima da capire se non avete mai sofferto di compulsioni schizoidi e varie ossessioni fobiche che però i Maestri del tè (!) sublimano in un’arte densa di grazia e soavità deliziose, costruendo con gesti millenari e pregni di significati, una atmosfera di studiato abbandono e di comunione intima con tutto il creato; peccato che il tè caldissimo il più delle volte faccia scorreggiare tanto.

SLUMINAZIONE:   Evento fortuito o provocato recante in sé la potenza del “Desciùles”, la Sveglia Primigenia, il Grande Affrancamento dai gesucristi di ogni latitudine e la piena riduzione dell’onanismo mistico alla salubre consuetudine del realistico pensiero sociale; la realizzazione infine, e scusate se è poco, del sé sull’erba dei nostri pascoli, evitando di confidare nei Verdi Pascoli, un tantino troppo Verdi.
Dice infatti il Maestro Woody Allen: – “Signore, tu mi fai sdraiare sui Verdi Pascoli, il problema è che non riesco ad alzarmi”.

ZEN:       Sorta di infatuazione, o infezione, psicologica affine al delirio di onnipotenza, all’allucinosi eidetica ed altre bazzecole così; nella Tradizione Scettica Universale si configura come un “omen”, un triste presagio, come ad esempio la frase “Ti voglio bene come ad un fratello” detta non dalla sorella; il manifestarsi dello zen può essere seguito da un accadimento funesto, quale ad esempio una fissazione egotistica per i muri, che può portare ad osservare una parete per dieci anni nella speranza di conoscerla meglio.  In tali casi è quanto mai efficace la forte sluminazione prodotta dalla badilata di un muratore volenteroso.

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0,1  –  CHE COSA CERCHI ? –

   Daju fece visita al maestro Baso in Cina. Baso domandò: – “Che cosa cerchi?” “L’illuminazione” – rispose Daju. “Beato te, io la sluminazione” – fece il maestro.

 

1  –  PIOGGIA DI FIORI –

Subhuti era discepolo di Buddha, era capace di capire la potenza del vuoto, il punto di vista che nulla esiste se non nei suoi rapporti di soggettività e di oggettività.
Un giorno Subhuti, in uno stato d’animo di vuoto sublime (1) era seduto sotto un albero; dei fiori cominciarono a cadergli tutt’intorno.
Ti stiamo lodando per il tuo discorso sul vuoto”  gli mormorarono gli dèi.
Ma io non ho parlato del vuoto”  disse Subhuti.
Tu non hai parlato del vuoto, noi non abbiamo udito il vuoto: questo è il vero vuoto”  risposero gli dèi, e le gemme cadevano su di lui come una pioggia.
E vabbè. Un’altra volta Subhuti, mentre stava placidamente sotto un pero, in preda ad una sensazione di russante non-essenza, fu svegliato da certe voci seccate che ripetevano:
“Oh, beh, ora non ci è mica piaciuto il tuo discorso sul vuoto, neh, hai detto un sacco di cazzate!” – E giù una pioggia di calci sui denti.
“Aaahh!! Non ho detto niente! No no aiuto anzi cioè, stavo proprio parlando del vuoto, quindi non c’era il vuoto, no? Ahia ahia ahia!!!… E andate tutti affanculo insomma!….”  gridava Subhuti, correndo a zig-zag e sluminandosi progressivamente.

(1) Metafora giapponese per: “dormiva come un orso”

 

 2 – UNA PARABOLA

   In un Sutra, Buddha, pasticciando come suo solito, racconta una parabola che noi riportiamo nella versione corretta

 

Un uomo che camminava in un campo si imbatté in una tigre. Si mise a correre, tallonato dalla belva; giunto ad un precipizio, non potendo proseguire si afferrò ad una radice di vite selvatica lasciandosi penzolare nel vuoto.
Dal fondo dell’abisso lo raggiunse il suono di una gutturale risata: era il marito di quella tigre di prima, un’altra tigre naturalmente, che lo guardava aspettando; nel frattempo due topi, uno bianco e l’altro nero, avevano cominciato a rosicchiare la vite.
Rotta la vite, l’uomo cercò disperatamente di agguantare un ramo di ciliegio (tutto fiorito) ma gli rimase inspiegabilmente in mano una fragola selvatica. Mentre cadeva nel vuoto con la sua fragola selvatica, esperendo la soggettività nell’oggettività, il vuoto sublime e tutto il resto, l’uomo ebbe il tempo di profferire:
“Eh, ma che sfiga stamattiiiii…….!”

 

3 – IL SUONO DI UNA SOLA MANO

Un giorno Koichi andò dal maestro Mokura perché questa storia della sola mano gli aveva proprio rotto l’anima.
La sua ragazza continuava a dirgli:  “sì vabbè, ma con una sola mano? Mokura ci riesce e tu? Che delusione.”
Suo padre mormorava, guardandolo severamente:  “Ah, che roba. Sarai anche un economista di successo, ci avrai comprato la villa col motoscafo, ma io e tua madre, avere un figlio con due mani!…”  e andava via scrollando la testa.
Gli amici ed i colleghi di partito lo sfottevano mettendo una mano dietro la schiena ed agitando l’altra tra grasse risate, mentre il fido bancario che aveva chiesto andava parecchio per le lunghe perché, gli spiegavano,  “qui da noi si lavora con una mano per volta, non siamo dei maneggioni”.
Dunque il giovane Koichi si presentò al tempio chiedendo del maestro, ma a chiunque lui si rivolgesse, nessuno sapeva dove quegli fosse, né ove trovar qualcun che lo sapesse.
Koichi cercò e vagò, perdendosi nel grande tempio come i mortali nell’esistenza finché, definitivamente rottosi, aprì una porta a caso e lì ecco Mokura, con la sua segretaria.  Come tutti potevano vedere, stava irrefutabilmente usando tutte e due le mani.
Da quel giorno Mokura non ruppe più i coglioni ad alcuno.

 

4  – MI CONVIENE FARE IL PIRLA?

Al maestro zen Zun Zan capitò un giorno di incontrare un samurai ubriaco che gli chiese minacciosamente: “Ehi, è questa la strada per Kyoto?”
“…Non è forse la strada dei fiori di loto?…”  rispose il maestro, con la tipica flemma zen.
Il soldato lo squadrò e disse:
“Ma che cazzo fai, mi prendi in giro, deficiente??!”  e gli menò un terribile fendente, dimenticandosi però di impugnare la spada.
Mentre fuggiva a seicento all’ora, Zun Zan fu sluminato.

5 – AH  SI’?

            Uno dei ‘koan’ più famosi è senza dubbio quello intitolato “Ah sì?” dove, secondo certa tradizione letteraria, il maestro zen Hakuin fa la  figura del babbeo.
Dopo lunga ricerca, tra gli scaffali polverosi del buonsenso giapponese abbiamo trovato la versione autentica del racconto, nella quale si rende giustizia al signor Hakuin da secoli rappresentato come un mezzo deficiente.

 
Il maestro Hakuin era decantato dai vicini per la purezza della sua vita.
Accanto a lui abitava una incredibile fotomodella pazzesca, che si pettinava e stendeva biancheria intima sulla veranda della casa, oppure pigliava il sole sul tetto ed anche se non era possibile vederla lo si sapeva perché si trovavano per terra gli uccellini tramortiti; insomma, com’è come non è, ‘sta ragazza, zac: incinta.
La cosa mandò i genitori su tutte le furie, tanto più che la malaccorta non voleva confessare chi fosse il complice nella faccenda, ma infine, davanti alla minaccia di uno, o anche due apologhi zen, disse subito trattarsi del maestro Hakuin.
I genitori ed i parenti, furibondi, andarono dal maestro:  “Ah, buongior…”  fece in tempo a dire Hakuin, che stava meditando, poverino; i parenti gli diedero una valanga di legnate e se ne andarono, lasciandogli il marmocchio.
Appena uscito dal grandissimo ospedale per maestri zen, Hakuin si diresse giù al fiume, dove le ragazze facevano le abluzioni di rito; beccata la fanciulla così le parlò:
“Senti un po’, brutta zoccola da mezzo koan: che ti è saltato in capa di dire che io ti avrei incinzio… incingiuto o che altro cazzo di come si dice (1); io mi sono preso un sacco di sberle per ‘sto scherzo di merda, e sono anche disonorato; io che ero sempre lì a meditare come un fesso mentre tutti intorno si divertono e poi contavo gli uccellini in deliquio ai piedi della tua casa e sa Buddha la fatica che facevo la sera ad addormentarmi.  E allora? Che cacchio ti è preso, porco judo? (2)”
“Oh Hakuin” – disse la ragazza col suo più bel sorriso che mezzo sluminò il maestro –  “io so che tu sei un santo e che mai mi avresti toccata, perciò ho voluto donarti l’illusione di aver avuto la fanciulla più bella della regione; tu mi insegni d’altronde che le idee e la realtà sono le due facce di una stessa menata… cioè, moneta, perciò credo che tu mi debba della riconoscenza”.
“Ah sì? ma senti; bè, mo’ te la do io l’illusione” disse veloce Hakuin, e chiuse la porta (3)”
Dieci anni di astinenza diedero ad Hakuin la spinta necessaria per compiere il gran passo; ed infatti, mentre ululava, fu sluminato.

(1) I  maestri, sempre lì a meditare, poi cascano sui verbi!
(2) Antica imprecazione giapponese
 

(3) E’ vero che la scena si svolge in riva ad un fiume, sul limitare di un bosco, ma Hakuin, essendo maestro zen, chiude la porta dove gli pare.

 

6  – QUASI UN BUDDHA  :

Uno studente universitario che era andato a trovare Gasan gli domandò:
“Gasan, vecchio ciula, hai mai letto la Bibbia cristiana?”
“No, cazzo” – rispose Gasan – “sono quaranta anni che sto qui sul ghiacciaio del Fujiyama e mi spediscono sempre pubblicità di palestre di judo e quel Reader’s Digest di merda! Leggimela tu”.
Lo studente lesse da San Matteo:
“…E perché ti preoccupi delle vesti? Guarda come crescono i gigli del campo: essi non lavorano eppure io ti dico che neppure Salomone era addobbato come loro; perciò non darti pensiero del domani,  perché sarà il domani a pensare alle cose…”
Gasan faceva tanto d’occhi.
Lo studente continuò a leggere: “…Chiedi e ti sarà dato, cerca e troverai, bussa e ti sarà aperto perché colui che chiede riceve, chi cerca trova e a chi bussa gli aprono, no?”
Gasan commentò:
“Ohimé che crisi… anche in occidente hanno questo qua che dice minchiate quasi come un Buddha… veh che è una bella fregatura: e io che volevo emigrare, porca la vacca sacra del Bodhidarma di una…”
“Ma no Gasan, vecchio ciula” – riprese lo studente – “qua dice che lo hanno messo in galera, quindi gli hanno menato e per finire lo hanno appeso a monito delle genti come lui; se n’è dovuto scappare nel Regno dei Cieli, figurati un po’!”
“Cacchio!” – disse Gasan illuminandosi tutto (si fa per dire) – “ma allora sono vaccinati lì!!!”
Acchiappò la valigia ed i vecchi sci e si slanciò dal ghiacciaio, jodelando.

 

7  –  BREVE INCIDENTE

Famoso fu, malgrado il suo breve apostolato, il maestro zen Alessandro Bottolenghi, un emigrante distratto che aveva sbagliato nave ed appena giunto a Kyoto si beccò l’illuminazione (1) divenendo all’istante e suo malgrado, maestro di zen appunto.
Mentre era a letto, tutto acchiappato dall’illuminazione che lo faceva certo di ogni cosa e del suo contrario, comprensibilmente depresso, entrarono due ragazze del luogo i cui nomi figuràti, secondo il simpatico uso orientale, suonavano come: ‘Candida Nuvola Illuminata Dal Sole Nascente, Circonfusa Di Grazia Soave, Mirabile Nel Sogno Mattutino E Pure Un Po’ Ninfomane, D’altronde e ‘Fiore di Loto Arrapato’; le giovani entrarono e chiesero al maestro di mostrar loro il suo zen.
Con le lacrime agli occhi il Bottolenghi stava per emettere una tipica sentenza zen, quando Candida Nuvola ecc. ecc., fissandolo negli occhi gli chiese, con voce un po’ roca:
“Sei straniero, tu, vero…?”
Fiore di Loto Arrapato si sedette sulla sponda del giaciglio e, cominciando a speluccare la coperta disse, con voce densa:
“Come sei bello, maestro, vedi, a noi, dello zen, sinceramente proprio…”
Alessandro Bottolenghi fu subito sluminato.

(1)“Contro illuminazione, niente vaccinazione: (proverbio giapponese):

8 –  IL MAESTRO DEL TE’ E L’ASSASSINO

Sen No Rikyu era maestro di Cha-no-yu, il rituale del tè ed insegnava quell’estetica espressione di serenità e di appagamento a Taiko, signore dell’era Tokugawa.
Ma l’aiutante di Taiko, il guerriero Kato, vedeva nell’entusiasmo del suo superiore per il cerimoniale del tè soprattutto una certa incuria degli affari di Stato, e perciò decise di fare al maestro del tè ed al suo cacchio di rituale una visita delle sue.
Si presentò alla casa del maestro e fu da lui invitato a bersi il tè, che non gli piaceva per niente.
Il maestro Rikyu, che era molto esperto nella sua arte, invitò l’ospite ad accularsi in terra, secondo la moda giapponese; quando Kato si fu acculato, il maestro disse: “adesso preparo il tè”  ma, leggendo nell’animo  del guerriero le sue intenzioni, improvvisamente rovesciò ogni cosa, riempiendo la stanza di vapori e di cenere. Quando la polvere si diradò Kato si accorse che il maestro gli aveva ciulato i documenti.
“Ed ora chi sei?” chiese il maestro al guerriero, sorridendo.
Kato guardò il maestro che teneva delicatamente in mano i suoi documenti e capì d’aver capito. “E’ così che tu prepari il tè?” – gli domandò.
“C’è un altro modo?” – replicò calmo il maestro.
“Beh” – rispose Kato, sempre acculato – “sì, ci sarebbe quello di far bollire l’acqua e schiaffarci dentro le foglioline, poi coprire tutto per cinque minuti ed infine servire caldo dopo averlo filtrato. A me fa schifo”.
“Come come come?” – Disse Sen No Rikyu vivacemente – “cos’è ‘sta storia, fa’ un po’ vedere, che mi sta venendo uno strano dubbio…”
Kato, il guerriero, irto di spade e pugnali, frecce, picche e alabarde, catafratto di acciai lucenti, ornato di stemmi e guidoni, paludato di mantelli svolazzanti e pavesato di piume, penne d’aquila, di pavone, bandiere, straccetti e girelli multicolori, s’alzò con un po’ di fatica e andò sospirando in cucina.
“Ecco” – disse versandolo nella tazza del maestro – “è così che si fa il tè, vecchio rimbambito”.
Sen No Rikyu mirò il liquido fumante e brunastro, lo portò alle labbra e disse:
“Ma è vero! O ma che cacchio!…” sluminandosi immantinente.

 

9  – IN CHE MODO L’ERBA E GLI ALBERI OTTENGONO L’ILLUMINAZIONE :

L’erba e gli alberi non so, ma il cane di Joshu un bel giorno entrò festosamente nella stanza dove il suo padrone si stava giusto facendo un albero, nel narghilè, ed aveva riempito l’ambiente di fumi così grevi che Koan (era il nome del fedele animale) al primo respiro già si credeva un rospo di palude ed alla terza profonda inspirazione buddista era convinto (a ragione) di essere diventato maestro zen.  Joshu, resosi conto di ciò che capitava al suo buon Koan, balzò in piedi tentando di spegnere l’immane canna, ma era troppo tardi; il cane aveva assunto una postura a fior di loto (peccato per la coda, che emergeva di tra le zampe fino ben oltre il punto Hara) e sentenziava mugolii omnicomprensivi.
Joshu era molto angosciato: per riportare l’animale nel suo stato comune catturò il gatto del vicino e lo mise davanti a Koan il quale, per via che stava meditando, non lo considerò minimamente; il gatto invece s’illuminò e si mise tosto in pellegrinaggio, con urla terribili.
Joshu si mise a lanciare un bastone, incitando Koan a riportarglielo, ma il cane zen gli rivolse un lungo apologo, tutto guaìto, sulla necessità etica del flusso siderale; poi gli addentò una chiappa per illuminarlo.
Joshu, sempre più costernato, portò all’animale una straordinaria bistecca di filetto che conservava cupidamente per sé, ma Koan ora stava in equilibrio sulle orecchie e non era disponibile alle vanità terrene.
Passò così del tempo, durante il quale il povero Joshu si lambiccava il cervello giapponese per trovare un rimedio alla tragedia che aveva indirettamente provocato, quando d’un tratto egli si accorse di uno strano mutamento nel contegno del maestro zen: il cane si grattava la capoccia con aria interrogativa; l’effetto del cannone stava infatti svaporando e lo scioccato animale infine si sluminò, tornando ad occuparsi solo delle proprie pulci.
Joshu, rincuorato, festeggiò l’evento con una cannarella d’erba accettabile, da fumarsi con il ritrovato Koan in letizia e senza pericoli.

10  – CONOSCI TE, FESSO:

Il maestro Tamura considerò con lo sguardo il suo discepolo e quindi così gli parlò:
“sei un pirla”.
Improvvisamente il discepolo si illuminò: “sono un pirla! Sono un pirla!” – gridava al colmo della felicità, ed il cosmo tutto vibrava d’assenso a quelle parole – “ora so cosa sono: un pirla! È così, maestro!”
“No” – rispose Tamura.
Il discepolo si fermò a mezzo di un salto mortale:
“perché, Maestro?” – domandò – “Tu hai detto che sono un pirla ed io ne ho finalmente preso coscienza: grazie alle tue parole ora conosco la mia intima essenza e so di essere un pirla; in cosa ho sbagliato?”
“Ma cosa vuoi sapere, se sei un pirla” – disse il maestro.
Il discepolo rifletté: – “Allora non sono un pirla, maestro?” – gemette, e le lacrime inondarono i suoi occhi.
Il maestro Tamura lo guardò scrollando il capo:
“sì, sei proprio un pirla” – concluse.

Contro la settimana enigmistica


Pare che la curiosità sia una bella cosa, ma fatevi beccare con l’occhio nella serratura di uno spogliatoio femminile. In ogni caso, il tempo per le curiosità è poco (oppure la serratura è stretta) e dunque l’applicazione a soddisfarle non dà mai grandi risultati. Per ciò che riguarda la musica, ad esempio, sarebbe bello seguire un corso di Conservatorio fino al diploma di maestro d’armi, o d’ascia o quel che sia, ma disgraziatamente ci rimane solo qualche ora al mese per strimpellare Cielito Lindo in modo molesto. Ed anche sulla teoria, già il Circolo delle Quinte è roba per saltatori d’asta, in grado di porre ostacolo alle curiosità maggiormente disposte all’impegno.
Non disperiamo, però: ci rimane l’amena lettura delle vite dei grandi artisti, i quali sono sempre personaggi dotati di qualche lato straordinario: c’è chi ha la gobba, chi è sordo, chi è psicopatico, c’è il demente, il malato, il miserabile e quello che non dorme mai, e c’è quello che odia tutti, molto ricambiato. La lettura pur didascalica di queste esistenze e del loro tempo, tra l’altro, non presenta solo un arricchimento culturale di qualche livello, ma anche l’opportunità di ringraziare il destino per non averci fornito alcun particolare talento.
Sono tante e così strane, le vite dei grandi artisti, però, che anche in tutto il pomeriggio di una Domenica non riuscirete a farvene un buon archivio e comunque, pensando al lunedì, quel garbuglio di eccezioni si mescolerà nella vostra mente, usa solo alla pratica quotidiana, in un coacervo di nozioni sempre più improbabili. Gioitene: avrete così risparmiato i soldini della inutilissima Settimana Enigmistica.

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Molti grandi musicisti avevano una vera e propria fobia del palcoscenico e celebravano complicati riti nevrotici per scongiurare un insuccesso prima di ogni esibizione. Anche Franz Joseph Haydn era affetto da curiose manie scaramantiche che ad esempio, prima di ogni concerto, lo costringevano a ficcarsi più volte un dito in un occhio.

Il rapporto degli artisti con i congiunti è sempre stato segnato da grandi difficoltà soprattutto per ciò che riguarda la figura paterna; come si sa, il padre di Mozart condizionò pesantemente la vita del genio di Vienna, ma Giuseppe Verdi giunse a cacciare il vecchio padre di casa, poi cacciò il padre di suo padre ed infine il padre di suo figlio e così morì di polmonite in un freddo inverno del 1901.

Wolfgang Amadeus Mozart era un uomo dalla personalità così semplice da risultare disarmante: secondo Sigmund Freud, il musicista era affetto da una forma border line di autismo, cretinismo,idiotismo e ritardo mentale; Mozart era insomma così tonto che non poteva capire di non saper suonare, e a ciò si deve la sua straordinaria abilità di pianista e compositore.

Un oscuro ocarinista delXVIII secolo, tale Jacob Szlengro riusciva, suonando il fa diesis dalla distanza di quarantasei metri, a far saltare una gallina per un piede e mezzo(46 centimetri).

Nel 1723, il violinista veneziano Augusto Rodolfo Picchi riuscì a produrre una difficilissima scala di note in modo talmente rapido, preciso e perfetto, che tutto il teatro lo mandò a cagare.

Il 28 Maggio del 1812, Piotr Vasiljevic Ciaijkowskij, agli esordi della profonda depressione che lo porterà alla morte,mentre camminava nella campagna sentì il melodiosissimo canto d’un usignuolo evi ebbe una ispirazione prodigiosa. Ma non seppe mai quale perché, proprio in quell’istante, un asino petonò.

Girolamo Frescobaldi fu un clavicembalista di assoluto genio e nel 1614 sostituì il grande Claudio Monteverdi presso la corte del Duca di Mantova. In quell’anno il Duca Ferdinando Gonzaga – uomo straordinariamente iracondo e di inclinazioni crudeli fino al sadismo – gli richiese di eseguire l’Ouverture dal Guglielmo Tell di Gioachino Rossini. Il Duca era un abile governante ed un valoroso soldato, ma, benché avesse un alto concetto di sé, non conosceva nulla di musica e non poteva quindi sapere che nel 1614 il Rossini non era ancora nato.
Frescobaldi giudicò opportuno non farglielo notare ed eseguì l’opera richiesta nel modo più magistrale.

L’organo a canne fu inventato nel 1539 da Gian Aleardo Bosco Del Bembo, un frate scomunicato della ordine degli Agostiniani il quale trovava troppo limitato il piffero con cui suonava nelle piazze per rimediare un tozzo di pane. Il frate costruì il primo organo dopo una abbondante libagione a base di sidro, vino Falerno, luppolo fermentato e decotto di stramonio. Addormentatosi così povero pezzente, si svegliò Maestro di Cappella ricco e famoso.

Il primo liutista ad usare lo strumento in solo fu Joan Stuart Vérmet de Vadez; egli utilizzava una chitarra battente di Antonio Stradivari, tenuta a tracolla sul torace come una bisaccia, riuscendo a ricavarne dei suoni che in seguito sarebbero stati riprodotti solo con l’avvento della musica elettronica. Il musicista attribuiva la responsabilità di ciò al geniale e misterioso liutaio cremonese, mentre lo Stradivari affermava di non saperne nulla e che ogni eventuale colpa era da attribuirsi al de Vadez;la Santa Inquisizione osservava tutti e due sospettosamente. La testimonianza di quelle sonorità bizzarre ci era rimasta fino alla prima metà del’ottocento su un disco dell’epoca, in legno, purtroppo andato distrutto nel rogo della basilica di San Sidro durante la campagna napoleonica delle Fiandre.

François Marie Arouet detto Voltaire definì la musica di Strauss “la più inventariante serie mitomica che gli sia dato addurre dai tempi di Temistocle” – il filosofo non fu mai in grado di specificare il senso di quella affermazione in quanto, con il suo tipico senso dell’umorismo, ogni qualvolta ripeteva quella frase non riusciva più a smettere di ridere.

Che ci si creda o no, è di Nicola II, Czar di Tutte le Russie, la prima definizione del Blues; ascoltando l’esecuzione di “Oh mama, i’m so stinky, mama, oh”, lo Czar ebbe a dire: “E’ proprio…” – prima di essere freddato dall’irruzione dei bolscevichi.

La tecnica delcontrappunto nasce nel 1530 ad opera del monaco luterano Hannes più un cognome impronunciabile che lasciamo alla fantasia di ognuno, probabile figlio dell’Elettore di Sassonia e della ballerina di una compagnia itinerante proveniente dalla Stiria; dopo gli studi di latino a Bamberga e il proconsulato a Linz, il monaco si recò a Monaco ove, grazie al tipico rigore classificatorio tedesco, fu conosciuto come “il monaco di Monaco”. Queste circostanze, insieme alla notizia del dilapidamento del patrimonio familiare ad opera del fratellastro e di una teatrante (in realtà un maestro di scena bulgaro, travestito e pelosissimo) lo indussero ad abbandonare il monastero di Monaco ed a smettere di fare il monaco, iniziando parimenti l’attività di soldato al soldo del Soldano.

Niccolò Paganini (1782-1840) fu un genio della musica ed un uomo di grande temperamento. Un giorno, suonando un preziosissimo Stradivari e trovando che non avesse il timbro da lui desiderato, ebbe uno dei suoi scatti d’ira e scaraventò a calci lo strumento attraverso la stanza. L’urto mandò in pezzi lo Stradivari, ma gli fece pure assumere un timbro particolarissimo ed inusitato, rendendolo eccelso.
Lo Stradivari “Lo spezzato“, di incalcolabile valore, è a tutt’oggi ritenuto il più perfetto violino al Mondo ed uno degli strumenti musicali migliori di ogni tempo.

Il “Tristano e Isotta” di Wagner, ha nell’ottava misura del secondo atto una serie di note (trillo) che ha origine fortuita: è infatti dovuta ad uno starnuto del compositore che era al lavoro mentre masticava degli Srepnzel; i frammenti di cibo così emesso presero posto sullo spartito manoscritto formando casualmente quello che è universalmente conosciuto come “il trillo di Wagner”. I numerosi altri sputi del musicista nonhanno avuto altrettanta fortuna.

Prima dell’invenzione dell’esacordo naturale e della scala pentatonica, la musica si sviluppava su un monocordo innaturale esu un gradino monotonico. Si può immaginare quanto apparisse scazzante un concerto in queste condizioni di stile.

Il poeta Percy ByssheShelley era così affascinato dalla musica che più volte pensò di abbandonare le arti letterarie per diventare maestro di corno inglese. Durante la sua permanenza in Italia, su consiglio di Lord Byron si rivolse al grande compositore Gaetano Donizetti il quale, dopo molte insistenze, acconsentì a fornigliene i primi rudimenti.
La riconoscenza del poeta per il Donizetti fu tale che egli volle esaudire la richiesta del suo maestro, annegandosi nel mare della Liguria.

“Stella Bastarda” end oder tings laic det


D’estate è tutto un fiorir di jazz. Pure i paesini del presepe mettono cartelli tipo neon consù la faccia di Miles Davis colla tromba attaccata; questi cartelli promettono un concerto gezz.  Da amatore del genere, da jazzista mancato e – perché no – da astronauta in pectore, sono felice di questa espansione; inutile dire (ma lo dico sennò non si capisce una Rava) che anch’io sono stato alla temibile rassegna di Umbria Jazz, la più importante, la più migliore di tutte. Ci sono stato, e così ve la racconto in modo:

 Gaiche 5

Truzzo:

Ce so’ annato perché ariciera puro questanno ‘sta gàzzo d’umbriaggèzze che me fa er soletico a li diti e me fa veni’ voja de sona’, ‘rtacci di ‘sti gàzzi. En piazza ciera aa ggente, ahò, ammazza quanta ggente ahò! Maggigo! Mì-dì-gò!! T’adovevi vede’, t’adovevi; stamm’a senti’, ascolta ‘n cojone: ce dovevi veni’!

Commerciale:

Siamo dunque lieti di comunicare la data e la location del convegno al quale è nostro piacere esservi graditi ospiti paganti presso la prestigiosa Residenza “camera ammobiliata” in occasione della rassegna sunnominata, sì da poter con essi convenuti sviluppare un proficuo confronto di idee (brainstorming) armoniche al termine del quale programmare un numero finito di punti d’intervento (planning) sulle lead sheets, tesi a modificare le action chitarristiche condivise in una mutua futura convergenza d’interessi esecutivi.

Politico:

E’ infatti doveroso, ancorché fàuno, cittadini, amici, compatrioti, fratelli gezzisti, è infatti doveroso, poter sembrare, VUOI per la famiglia e la pasta e la mamma, VUOI riferendoci all’alto dove lui risiede e tutti ci compete e ci irpinia, ecco il punto! Ed allora fratelli, amici, compatrioti, battitori di cazzarole, guardando nel profondo del nostro cuore, noi ne sentiam lo slancio eccipuo e, galvàni della strengua, diciamo tutti insieme: sì, sì; SI’! Grazie amici, grazie.

Montalbanese:

Ti capirisìsti? Forsi che era tanticchia scunfusu chiddu pulitichese, ma tutti ci adduniamo che lu pulitico chiacchia nun pi fassi capirisire, ma chiacchia pi chiacchiari e se tu n’ci spii: “Voscienza, nun capirìsiri una minchia”, iddu arrispunni ninti, surridi e saluta cumi si ci avessi spiato: cumplimendi. Ti piglia gana di tagghiacci ‘a ggòla, o di rìdelli ‘n facci. Ma stavamo spianno di Piruggia:

Protoitalico:

Ebbene, Perugia, sic et simpliciter antiqua urbe est, cum nova gente; ambulando propter medioevales viculas tu contra multa juventute faciam tuam debattes; et ièndo pedibus calcantibus supra moenia civitatis, non milites invenies, sed multa gnocca ivi radunatat.

Ggiòvane:

E la musica? Beh, cazzo, raga: cioè, cazzo: la musica, cioè, la musica, cioè: è un deliiiirio! Cioè, tu immagina, che, immagina un momento, cioè, immagina: cazzo: un deliiirio di gente che suona, cioè, troppissimo bene; arriva uno, cioè, trooppo fuori, fatto come una mina, arriva ci fa: ciao. Cioè, hai capito, ci fa: ciao! Miinchia, trooppo fuori! Si mette lì che cioè tira su un sàx che c’era lì, miinchia: cioè: cioè, miinchia! Mitico, strabello; cioè ti tira pròpio fuoori, cioè, cazzo, dài, minchia e poi…

Dantesco:

Di quel didanchi, morse un mottarello
Che l’afa fece un poco meno dura
Sì che potea essere il concerto bello
E pur le messi, fesse in quell’arsura
Conévasi nel corso dell’estate
Smaluginando, nella nota pura.
Ahi, quanto smadonnammo per più fiate
Ed in concerto fu l’animo fiacco
Da che tentammo quelle note date
Per riprodurne lo stile, ma fu smacco.

Questuriale:

Segue: – addì 15 di Luglio 2006, Venerdì, alle ore 18:00, lo scrivente, sottoscritto Internet si dirigeva in direzione Via Castagnola angolo Corso Fanfulla ove risiedesi il Teatro Morlacchi, sede d’importanti convegni. In Loco, il sottoscritto scrivente, dopo attesa di quattordici minuti orari, assisteva al riferito concerto del costituto Hanc Giohnes, di razza africana, anni 88, professione pianista fre lancia, che trovavasi in compagnia di tal Giorgio Razz, bianco e baffuto, imbracciante una enorme chitarra verticale che non si sente e di un non identificato battitore di casseruole, razzialmente pari al nominato Anck Gions. Sedavasi i sospetti di eversione nello scrivente dopo i primi trenta minuti di concerto, trascorsi i quali non potevasi fare a meno di battere l’un contro l’altra le palme degli arti superiori per minuti tre e colpi successivi: 80.

Bìblico:

E dunque, in quella valle di dolarè, per sette giorni non fu pianto ma gioia dei cuori e vastità d’intenti per tutti gli uomini di buona musicalità; le turbe migranti dalla piazza principale ai vicoli dei vicoli levavano lodi e v’era chi stracciava le proprie vesti, ma per il caldo. E fu cosa buona e giusta, e grande fu nello spirito la letizia per l’incontro tra Pat Metheny e Enrico Rava, ma l’ira di Dio consumò i biglietti del concerto e allora fu pianto e stridor di denti in tutta la galleria.

Turistico:

Ma non problema; il giorno dopo è uno bellissimo giorno, io è al concerto di Bob Cat ed egli ha bravissimo, non lo ha forse? Oh sì, sicuramente, e suoi compagni anche; infortunatamente, alle otto dopo mezzogiorno dell’orologio era finito e cammina a casa. Meraviglioso!

Calcistico:

Ma ecco entrare Paolo Fresu… Paolo Fresu… Paolo Fresu… il Maestro Salis! Fresu, Salis, ancora Salis, Salis, Fresu, do bemolle! Passaggio in minore… scala misolidia… mi bemolle! Mi bemolle! Mi bemolle! Mi sesta! Re diesis! Accordo di nona! Legatura di valore, trillo…! gruppetto!… Soooool!!!… Uno splendido concerto!

Berlusconese

Anch’io suono il jazz
anch’io sono batterista
anch’io sono chitarrista
anch’io sassòfono, pianòlo, canto.
Anzi, un giorno, il Sinatra mi fa: “ma come fai ad essere così bello ed insieme così bravo? Mi insegni?” – e mi faceva così pena, cosa volete, che gli ho insegnato e ho mandato avanti lui. La Reta Franchi, che gli piacevano i fusti alti e biondi come me, me la sono fatta mentre cantava l’inno nazionale. La Nina Simone, mentre sbatteva la maionese. Pure il Billi Olidai mi voleva, ma io c’ho detto che ero mica cuul, eh eh eh. Ho inventato lo swing una mattina mentre mi facevo la barba. Poi ho piantato lì perché c’avevo da fare, uéh. E adesso alleggeriamo un po’ l’atmosfera: la sapete quella della coppia dove lei suona il piano e lui la tromba?

Giornalistico:

… Eccoci di nuovo in ufficio; Bergamo: avanza la costruzione del nuovo ospedale, sentiamo il nostro corrispondente Internet:
…grazie Ufficio; ospedale? Sì grazie; questo sembra dire la provincia bergamasca alla vista dell’enorme cantiere che avanza ingoiando interi quartieri popolari; cui prodest? Direbbe Catilina, ma sentiamo invece l’ingegner Caccafeci; ingegner Caccafeci, sacramento, ma perché non comprate qualcuno dei nostri prodotti?
…eh, ustia, barbù de bilét, farfisa inpùgn strufenghe de sciàt…
…ssè vabbè, fanculo ingegnere, da Bergamo è tutto, a voi Studio.

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