Giro di boa


Ricordo d’una miniregata, una piccola gara di barche a vela cui partecipai e che fu una grande, bella battaglia vittoriosa.

Eravamo cinque barche “a deriva mobile”, dunque di piccolo cabotaggio. V’erano due “Strale”, che son vere barche da regata, veloci, scuffiarole e difficili come donne, ma come donne, affascinanti. Poi due “Quattro e settanta”, che erano denominate così, con un nome che definisce la loro lunghezza; barche rispettabili e veloci che tengono bene il mare e perdonano qualche errore in più di quelli che le prime trasformerebbero in un disastro; e poi c’era un “Vorien”. Il Vorien è una barca di vecchia concezione, in legno, dalla linea squadrata come il disegno d’un bambino; ha un pescaggio esagerato, una velatura striminzita ed è pesante e lenta quanto un vecchio bue. Sulla linea di partenza stavamo dislocati in questa bizzarra, ineguale compagnia.

Eravamo coppie di equipaggi; a me e il mio socio toccò, manco a dirlo, il Vorien. Ci guardammo, e sorridemmo mestamente: facevamo prima a non partecipare nemmeno – pensammo. Ma poi un gagliardo senso del “dài, avanti: sempre, si combatte” ci fece prendere il nostro vecchio bue ed armarlo a puntino. Avremmo venduto cara la pelle. I due Strale avevano un’aria così aggressiva che parevano già essere arrivati al traguardo. Io di consueto ero un timoniere, ma quella volta il mio compare ci teneva a stare alla guida del bue, ed io mi adattai al ruolo di prodiere, badando al fiocco ed alla deriva.

Ed ecco, eccola, la boa di partenza. La raggiungiamo e mettiamo le prue al vento.

La boa di partenza è come casa. Lì sei al sicuro, lì sei fermo, lì non sei in gara. Ma quando la lasci andar via, quando la abbandoni e parti pieno di vento, per un poco essa ti manca. Ti accorgi che l’amavi, perché ti impediva di dover osare, ti teneva tra le sue braccia di mare e ti rendeva tranquillo, ti impediva la guerra. Quando disponemmo il boma a favore di vento e tesi netto il fiocco e la barca sciabordò, la boa di partenza mosse indietro. La guardai dondolare all’onda delle scie e rimpicciolirsi; eravamo partiti.

Le due frecce da regata schizzarono avanti come spinte a motore e subito appresso presero acqua i due “Quattro e Settanta” che gonfiarono le vele come muscoli; noi soffiammo sulle nostre con la disperazione di chi vorrebbe un vento personale per riequilibrare la fortuna mentre il timoniere muoveva la barra come a remare, perché il Vorien appariva torpido quanto un risveglio con la febbre.

Stavamo andando verso la prima boa; la prima boa estranea, lì ferma e occhieggiante in mare; non vedevo altro che lei sapendo che un giro di tango ben fatto, abbracciato a quella, avrebbe deciso del futuro; la barca mi sembrava affossata in mare, sarei sceso a spingerla a nuoto; il timoniere era bravo e faceva quel che poteva perché sulla randa il vento scorresse senza turbinare, per parte mia io avevo il fiocco così teso che pareva metallo bianco luminoso quanto il sole. La boa mi guardava aspettando, ma eravamo ultimi, ultimi, che il demonio ci assista.

“Stringi di bolina!” – gridai al timoniere

“C’è troppo vento, siamo pesanti, scuffiamo!” – mi rispose

“…Vado fuori!” – dissi e misi i piedi sulla murata acchiappando lo strallo di dritta.

È una manovra che si chiama “il trapezio” e consiste nello sporgersi completamente dalla murata del naviglio per controbilanciare col proprio peso l’inclinazione che il vento di bolina stretta provoca alla barca. Il vecchio Vorien si piegò su un fianco, e fu improvvisamente agile come fosse ringiovanito; io venni sollevato fino a riveder la costa

“Stringi!” – gridai al timoniere

“Ce la fai?!…”

“Stringi, cristo!” – gridai, e tesi le gambe; la barca s’inclinò ancora, tanto che l’albero sembrava orizzontale; ci avvicinavamo ad un “Quattro e Settanta” come balenieri infoiati; gli fissavo la poppa con una foga tale che non avessi avuto le mani occupate, l’avrei fiocinato.

La murata del “Quattro e Settanta” ci sfilò a babordo arretrando mentre il suo equipaggio ci guardava con pupilloni increduli; il Vorien inclinato su un fianco, con la deriva quasi fuor d’acqua pareva uno squalo preistorico cigolante, e andava per il mare come poggiato su un’onda di spinta misteriosa.

La prima boa, la prima, la prima. La vidi così vicina, così vicina. La sentii urtare la murata mentre il cerchio dell’abbraccio la stringeva prima dell’abbandono; eravamo così veloci che fu un morso più che un bacio: la girammo rudi e sbilenchi tra spruzzi di geyser ed un selvaggio frastuono di acqua e di legno.

“Strambata!” – gridò il timoniere; il boma scattò come una tagliola; ero rientrato all’ultimo istante e mi mosse i capelli; ora, di là: scattai sull’altra murata e mi issai aggrappato allo strallo di babordo.

Davanti a noi, a tre lunghezze di scafo ormai, tallonavamo l’altro “Quattro e Settanta”; lo stavamo prendendo; nemmeno Achab aveva questa hybris; ora il timoniere si fidava di osare e inclinò la barca tanto che mi vidi stare in piedi sul cornicione d’un palazzo; mi inarcai all’indietro quanto potevo, sperando che il vecchio Vorien non ci tradisse; la barca tenne, e quando rasentammo il “Quattro e Settanta” che passò alla nostra poppa, allora la vidi: eccola, la seconda boa.

Ora era più facile: addosso, di punta, quasi a passarle sopra, e strambata secca, come fare una derapata sulla neve perché poi bisogna tornare; fu così liscia, così liscia la manovra; venne una carezza con la quale salutai la boa finalmente sorridendo.

Tornare al traguardo è il contrario che tornare alla partenza; si può tornare alla partenza facendo marcia indietro, ma quando invece avanzi non si può più dire che torni: si arriva dall’altra parte dello specchio. Nulla più è uguale.

Talloniamo gli Strale, gli Strale, nientemeno! Nessuna delle altre barche ha fatto le nostre acrobazie; la boa che fu di partenza è divenuta di arrivo, ed è là come invecchiata, di spalle, vaga, remota e scolorita; nella nostra andatura da circo stiamo avanzando nella sua direzione e dietro le barche da regata che si inseguono come gatti in primavera

“Li prendiamo, li prendiamo!” – grido al timoniere; ha gli occhi sgranati, sul volto una smorfia di entusiasmo incredulo: per un poco lo ha pensato anche lui.

Ma non avevamo abbastanza mare, non c’era abbastanza mare, dannazione; la boa d’arrivo era troppo vicina, e noi tutti troppo veloci. Li avremmo presi, sa dio che li avremmo presi e ce li saremmo portati attaccati al timone come ad un amo, entrambi, i due Strale da regata; li avremmo trascinati come dei marlin nella pesca d’altura. Ma il traguardo era troppo vicino. Ci voleva più mare.

E dunque terzi. Siamo arrivati così. La nostra barca prodigiosa superò senza guardarla la boa d’arrivo, finì lo slancio, barcollò e fece “splash”: cadde sulla chiglia, rimettendosi nella consueta sua posizione mezza affondata in acqua. Quel demonio che filava sibilando su una murata con l’albero piegato dalla tensione delle vele, quel vecchio ferro da stiro d’inferno tornò improvvisamente un vecchio pigro bue come se un esorcismo l’avesse liberato dal Diavolo in persona. Come avesse potuto far quello che aveva fatto, il barcone venerando, nemmeno noi riuscivamo a capirlo mentre ne iniziavamo il disarmo con il rispetto di artiglieri che smontano il cannone pur antiquato con cui hanno tenuto in scacco il nemico.

E allora, e comunque: vittoria. Perché è la battaglia, l’importante per un uomo, e noi abbiamo combattuto, oh sì: abbiamo combattuto con tutte le nostre forze mentre gli altri, più fortunati, più equipaggiati, più moderni, ricchi, più validi, no. E per non aver sfruttato i loro navigli al massimo delle prestazioni non se la meritavano, la vittoria; noi sì.

Gli equipaggi degli Strale ci guardavano di sottecchi, come impauriti, mentre tutti disarmavamo le barche.

Il nostro squalo di legno gli stava mordendo il culo, per dio – pensammo. Certo che erano impauriti.

E questo fu ciò che serviva per dire d’aver vinto.

GIRO DI BOA

Giove e il fulmine



In quel grande temporale c’erano tanti lampi che dall’orizzonte allo zenith sfolgoravano le coltri nere di luci improvvise. Fumando in balcone, guardavo quella nuvoletta piccina, bassa di quota, separata dal turbine più su e la vedevo sforzarsi; la nuvoletta provava provava, ma non riusciva a fare un fulmine, e sembrava estenuata; i suoi margini sfioccavano via via più indistinti, e sembrava abbassarsi sempre più.
Avevo quasi finito la sigaretta e pensavo ormai che avrei visto la piccola nube stanca dissolversi in un chiarore d’altri; ma a poco a poco scorsi dal monte salire una forma scura, così grande, tanto maestosa, imponente e magna, e la forma aveva un volto ed in testa una corona di lauri intrecciati nelle chiome e lo vidi, lo vidi, il Re degli dèi approssimarsi alla nuvoletta, udii il rombo con cui, guardandola, le parlava e ancora vidi essa sforzarsi d’un fulmine, e sotto lo sguardo del dio; e in mezzo a tanta grandezza di tempesta infine vidi dipartirsi da quel piccolo ciuffo scuro una luce magra, poco più di un capello ritorto e chiaro appena perlucente; quel filo incerto non poteva che essere una minima saetta. Seppi, così, che la piccola nuvola v’era riuscita. Allora il Re degli dèi si ritirò e lentamente si trasformò nel monte alle sue spalle, e la nuvola bambina salì a ricongiungersi colle sue maggiori finché la tempesta, rombando lontana, si dissipò.

E allora seppi che gli dèi, talvolta, possono essere amorevoli.

Chirurghi


Vengono quei momenti, e sono rari tanto da non darci di essi l’abitudine, vengono i tempi dello straniamento, e del fuori-terra che hanno natura di un risveglio da ammalati. Quando d’una situazione pensavamo di conoscere e di sapere i connotati, di averla nostra, di famiglia. È il rischio che concediamo al fuori, quello di entrare; quando apriamo la porta.
E il mondo, là fuori, può entrare. Tutti noi abbiamo un interno, è per questo che siamo costruiti come strati sovrapposti; il nostro cuore, i polmoni coi quali respiriamo son racchiusi in una gabbia di colonne, e poi coperti dai muscoli, e questi da tutti i tegumenti che terminano con un vestito di pelle; tutto quel che ci fa vivere è protetto da cortine di cortine; svestirsi, è complesso, e così è la nostra mente.
E allora, siam difesi, e ciò significa che la difesa è cosa giusta, e tuttavia c’è un “ma”.
Perché se per aiutare un cuore malato nel suo compito bisogna raggiungerlo abbattendone le protezioni con violenza amorevole, e fermarlo come per ucciderlo, e poi tagliarlo, e più e più volte ferirlo, ciò significa che pure la nostra mente, per ricevere beneficio, talvolta va invasa.
Il beneficio. Cos’è. È un modo di rapporto. E solo l’intenzione insieme alla conoscenza rende quel rapporto un beneficio e non un danno; noi confidiamo nell’uomo armato e mascherato che ci lega ad una tavola dura relegata nella penombra di una stanza spaventosa perché quell’uomo è un chirurgo, ed è lì per aiutarci, perché lui conosce il problema che ci rende inadatti alla vita, e vuole darci vita. A lui ci affidiamo sapendo che quella specie di morte d’incubo che ci attende quando perdiamo i sensi sapendo che verremo fatti a pezzi è invece il modo per vivere meglio quando ci sveglieremo, perché sappiamo che, col suo aiuto, ci sveglieremo, e poi sarà tutto bello.
La natura è sempre la stessa ed allora anche la mente deve essere così. E quando essa viene invasa da un modo di rapporto, confidiamo che quello straniamento sia non l’incauto, imprudente essersi fidati d’uno sconosciuto, ma l’averne vista l’intenzione di farci vivere meglio. L’uomo armato e mascherato che pare sorridere brandendo un coltello mentre siamo legati e perdiamo i sensi, è un chirurgo, lo sappiamo.
Lo sappiamo.
Lo sappiamo? E come?
Qui c’è la differenza tra il mondo fisico e quello della mente, delle emozioni: se il primo è soggetto ad un controllo plurimo così da fornirci la sicurezza che altri abbiano già valutato l’intenzione e la competenza di quel tale, nel mondo della mente non è così.
E quando apriamo la porta al fuori, e su quella tavola dura ci affidiamo, solo noi possiamo valutare intenzione e competenza della figura che si avvicina armata di grazia e di coltello.

Talvolta, ci si sveglia senza un rene, e col messaggio sullo specchio: il disegno a rossetto d’un occhio che si strizza e dice “grazie”.

Il Diavolo


Quando lo pensiamo, ne abbiamo paura. Lo diciamo maligno, crudele; è Il Male in una forma distinta che mostruosamente trasfiguriamo tanto da poterla ancora riconoscere come umana, ma deforme il più possibile per poter essere ritenuta lontana. Lo facciamo mostro per poterlo vedere diverso e remoto da noi.

Eppure, il Diavolo nostrano non è Ahriman, lo spirito distruttore nello zoroastrismo, non è il Mara del buddismo: queste sono entità disgreganti, sono il simbolo della morte. Il nostro Diavolo è invece figlio di Pan e di Prometeo: la forza itifallica della natura ed il desiderio di esporre la conoscenza; il nostro Diavolo è lontano dalla morte quanto lo sono il sesso e la scoperta, ovvero ne è l’esatto contrario: è proprio la vita.
Ma la vita ci fa paura. Anche la conoscenza, ci fa paura; nella vita, conoscere, sperimentare, può cambiare le cose imponendo anche una trasformazione di noi, e noi temiamo i cambiamenti; il cambiamento porta su strade nuove che per il fatto di esserlo ci presentano l’azzardo dell’avanzare dovendo costruire su terreno vergine un proprio tracciato.
Ed allora certo che il cambiamento che la conoscenza provoca è anche foriero di dubbio. Il dubbio è: dove andrò? Saprò farlo? Cosa lascerò? Cosa troverò?

Il Diavolo è la forza che spinge avanti, che prende per le mani e tira, è la forza. La forza dice: vieni! E non presenta dubbi. Come può non averne? Non è umana, e giusta, la paura del nuovo? Forse che pure gli animali, posti nel nuovo, non esitano ed iniziano invece a perlustrare con mille cautele? Certo, che il nuovo fa paura. Il Diavolo seduce. Perché spinge verso il piacere. Non dice “vieni a bruciarti col fuoco”, ma “vieni a sentire il piacere del fuoco, delle azioni della vita che ti fanno vibrare come la fiamma; è questo, il fuoco: è il brivido del tuo piacere. Non fare cose contro il piacere, ma fai solo quello che ti piace sia. È così che sarai felice”
Il Nemico, è il nemico perché ti obbliga a guardare quello che non fai per te e mentre guardi, soffri e dici “vorrei” e lui ride e dice “certo che vorresti! Dunque fallo!” e tu hai paura. Ed allora è talvolta facile considerare il Diavolo solo come un tormentatore che costruisce modelli dei tuoi sogni e te li mostra possibili, mentre tu hai paura di realizzarli; puoi dire “mi stai tentando” e lui risponde “certo!” e tu gli dici “è difficile” e lui risponde “è possibile!” e tu gli dici “ho paura” e lui risponde “sùperala!”, ed è così che il Diavolo ti tormenta.

Con la vita possibile.

ARCO DELLA PACE


La pace, la pace: chi non vorrebbe la pace. E invece dobbiamo vivere la guerra; perché? È una vera volontà o piuttosto l’inadeguatezza di individui deboli che abbiamo avventatamente messo nella centrale di nostro comando, a provocarla? Perché la guerra non accade solo perché qualcuno la vuole, accade anche perché qualcuno non sa comportarsi, e se questo qualcuno è importante, ci si fa, anzi: ti fa, molto male. Si disperdono ricchezze, si soffre, si piange un tempo che poteva essere diverso. Oggi, siamo in guerra tutti, chissà come e perché.

Ma insomma: “Arco della Pace”: sapete dove ve n’è uno? Nella città più caotica, febbrile, disattenta ai valori pacati della vita, la città bugiarda, perché è con le bugie che si fanno gli affari e questa è la città degli affari per antonomasia; un Arco della Pace si trova a Milano.

Nella zona Nord-Ovest, vicino al grande Castello dei Visconti e poi degli Sforza col cui nome è ricordato, si apre la zona Sempione. È considerata una (ah ah) “zona verde” della città, contenendo l’omonimo Parco. Si chiama così perché “Sempione” è un paese sorgente sul valico che un tempo collegava Milano ai suoi padroni stranieri. Vedete, sulla mappa, le due arcate viarie che sembrano racchiudere un prato? Ebbene, quel prato è il Parco Sempione, la mitica zonavérde, e proprio in quella rotondina che pare una piazzola di atterraggio per gli elicotteri, s’innalza l’Arco della Pace, proprio alle spalle del Castello Sforzesco. Ed ora, una curiosità: sapete perché si usa il termine “teppa”, “teppaglia” per indicare gente poco raccomandabile? Perché in milanese “tèpa” è il muschio, che nel XIX secolo cresceva abbondante sulle mura del Castello, prima che una sensibilità estetica cittadina rendesse affascinante quella zona, e la “Banda de la tèpa” (la banda del muschio) era un gruppo di disgraziati che stazionava là dove a quel tempo non era consigliabile, soprattutto per le donne, passare.

Ma torniamo al nostro Arco: esso è detto “della Pace” adesso, ma fu edificato nella prima metà dell’800 come arco trionfale (dunque, “pace” un belìno) che doveva ricordare la vittoria francese contro i prussiani, nella battaglia di Jena. Ancora nel 1859, fu considerato simbolo della vittoria franco-piemontese contro gli austriaci, nella battaglia di Magenta. Lo vedete, che “pace, pace” e poi sempre di sberle si parla? Oh, i bugiardi, gli ipocriti, i traditori della fiducia che loro accordiamo, quali danni, fanno, alle nostre anime sempre troppo indulgenti con essi.

Sia come sia, l’arco è contornato da strade ad arco, vedete: Corso Sempione, si chiama, e come se no? E la “zona verde” di Milàn la finìss minga lì, perché poco oltre il Parco Sempiùn al gh’è anca dj bej giardinètt chi se ciàma, sentite che bel nom: “Spirali del Tempo”, nientemeno. Un tempo, lì sorgeva la Fiera Campionaria dove trovavi dalle barche a vela allo zucchero filato, e io da bambino ci andavo sgranando occhi così. È la zona del Portello o Villapizzone. Poco più in là s’erge la “Muntagnèta”, quel rilievo che pare una collina naturale inopinatamente nata lì, e invece è un prato che ricopre le macerie dei mille edifici milanesi sgretolati dalla guerra, accatastate lì e diventate appunto una montagnetta modesta – poco più di 40 metri – sulla quale, al tempo in cui d’inverno nevicava, si sciava pure.

Vedete, quante cosette in pochi passi; se andate nella zona di Corso Sempione-Via Melzi D’eril e vi mettete a magna’ in uno dei tantissimi ristori, non riuscirete a vederle tutte.

Fermatevi una notte.