Canzonati


Nel mentre che s’era freschi, bevevamo, fumavamo, cantavamo, eccetera vivendo le parentesi come tutta la vita. Si discorreva, anche; e ben presuntuosamente, come ci si può aspettare; ma le parentesi erano uno spazio aperto.

Ricordo che un dì di sera ben annottata, io, l’amico e due fanciulle raggiungemmo in auto prati fecondi. Io avevo preso dei fuochi d’artificio, nientemeno (evidentemente mi sentivo insicuro, o forse ero ubriaco anche prima di bere, o magari ero solo molto giovane) assicurando che sarebbero stati magnifici: il venditore di mitragliatrici e scimitarre m’aveva assicurato che con dei fuochi così avremmo assolato la notte in mille varianti di luce. C’avevo dunque meco uno scatolone magico, e poi avevamo nel serbatoio alcoolici ed altre adiuvanze per lunghi viaggi.
Giunti al campo dei miracoli, raccomandai gl’altri di mettersi al riparo e m’inoltrai arditamente nella vastità come uno sminatore professionista; dietro me l’amico e le fanciulle vociavano allarmati e ridenti: “ìnternet! Stai bene? Hai bisogno di aiuto?” – io, calmo artificiere, rassicuravo gridando basso: “state giù, bellezze, lasciatemi fare e rimanete al sicuro: tra poco inizia il finimondo…” – trovai loco alloco e fissai i razzi intercontinentali, poi sfregai il pollice sullo zolfanello come Ringo ed accesi la miccia alla Pietro Miccia (licenza narrativa).
Gli amici ammiravano la notte attendendola accendersi di fantasmagorie.
La miccia prese, fricchiò e si contorse come una serpe disturbata, io corsi tra le erbe verso il gruppo, essi m’accolsero come un eroe di guerra, schiacciammo la testa abbasso contando a ritroso e c’abbracciammo (era lo scopo).
Comincia! Papif, puf, pràf, patapàf, pò. Mezzo metro sopra il prato s’eran fatte per qualche secondo delle luci fatue schioccanti a cui seguì buio e silenzio frammezzo le cicale; sollevammo le chiome; io dissi: “…comincia ora” – ma già capivo che lo spacciatore d’armi m’avea messo in braccio, in cambio di lingotti di banconote, polvere di sabbia mista a due petardi. Attendemmo un poco; la notte non fu più turbata; cantavano placide le cicale amanti.
“Beh, carino” – disse una delle fanciulle, volendo significare che eravamo sì scemi, ma simpatici e in fondo desiderabili (le donne non aspettano certo le nostre gesta per volere ciò che vogliono: lo decidono quando tu stai ancora dormendo e sogni di fare i compiti, e più nulla può cambiare il lor deciso).
Decidemmo così di riderne, dando colpa al trafficante ed al destino, all’umidità della notte che pareva solo, secca, ed al prato, quello lì, particolarmente inadatto. E poi, naturalmente, alla sfortuna; la sfortuna c’entra sempre.

Così, quella notte festosa, corredati di chitarra ed altre ispirazioni, componemmo colonna sonora dell’episodio con una ode ossequiente alla sfortuna; si chiamava “Sfiga blùs”; ne ricordo solo due strofe, o forse siamo stati interrotti dopo due strofe, chi lo sa:

SFIGA BLÙS
(blues classico)

Incontro nel vico
un rapinatore
mi ruba la laurea
non son più dottore.
Ma non è stata la giornata
peggiore

M’addormo beato
al sole nell’orto
e tutti a pensare
son ore ch’è morto.
Svegliarmi sepolto
e non abbronzato
mi ha un po’ contrariato…